Claudio Paolucci torna su una delle affermazioni più celebri di Greimas – “fuori dal testo non c’è salvezza” – per mostrarne la complessità e la polisemia, spesso trascurate nell’uso corrente. La rilettura di questa formula diventa per l’autore l’occasione per indagare le tensioni teoriche interne alla semiotica generativa, nata dall’ibridazione fra due matrici epistemologiche profondamente differenti: lo strutturalismo e la fenomenologia.
Paolucci osserva che il paradigma testuale, dominante nella tradizione generativa, si regge proprio su questa ibridazione. Esso assume, nella sua declinazione merleau-pontyana, l’idea che “non esiste semiotica se non di ciò che è testo”: che si tratti di testi verbali, oggetti, pratiche o fenomeni culturali, essi diventano significativi solo nella misura in cui possono essere trattati come testi. Ma — si chiede Paolucci — cosa si intende davvero con “testo” in questa prospettiva?
La risposta è duplice, perché duplice è la tradizione cui il paradigma attinge. Da un lato, nella linea hjelmsleviana, il testo è l’oggetto della teoria linguistica, un elemento della manifestazione che funge da dato da descrivere e analizzare. Hjelmslev, afferma Paolucci, assume il testo come punto di partenza, qualcosa a cui “ci si deve adeguare nell’analisi”.
Dall’altro lato, nella tradizione fenomenologica che attraversa il pensiero di Greimas, il testo si presenta come correlato di un progetto descrittivo, un’entità che non ha una realtà empirica autonoma, ma che è costituita dal punto di vista teorico dell’osservatore. Greimas e Courtés, nel Dizionario, definiscono infatti il testo come “costituito unicamente dagli elementi semiotici conformi al progetto semiotico della descrizione”. In questa accezione, il testo diventa un’entità “indifferente ai modi semiotici di manifestazione”, esattamente come il noema nella fenomenologia husserliana.
Paolucci ricorda che già Marrone aveva distinto tra testo come oggetto (accezione strutturale) e testo come modello (accezione fenomenologica). L’oscillazione tra questi due poli attraversa tutta l’opera di Greimas, che usa il termine “testo” in entrambi i sensi, talvolta anche simultaneamente.
In questa prospettiva si spiega la celebre espressione: “fuori dal testo non c’è salvezza”. Da un lato, Greimas la collega alla sua formazione filologica e all’idea del testo come punto di partenza reale, manifestazione del pensiero dell’altro, elemento da rispettare. È l’accezione hjelmsleviana. Ma poco dopo, rispondendo a una domanda sulla fenomenologia, Greimas usa la stessa formula in un senso radicalmente diverso: il testo, come un cubo geometrico visto da più lati, è una struttura invariabile, indipendente dalle variazioni dell’enunciatore e dell’enunciatario, una costruzione che ha uno statuto analogo agli oggetti matematici.
Paolucci sottolinea che questa seconda accezione attribuisce al testo un carattere simulacrale: esso non è più un oggetto empirico, ma un correlato teorico che permette di “evacuare il problema dell’essere” in favore di una “esistenza semiotica”. Non si tratta, quindi, di scegliere tra due definizioni: Greimas mantiene entrambe, alternandole secondo i bisogni locali del suo discorso.
Tuttavia, per Paolucci, questa epistemologia sincretica comporta gravi rischi. Se il testo è al tempo stesso il tutto (l’oggetto semiotico costruito) e una sua parte (la manifestazione empirica), si entra in un’ambiguità difficilmente sostenibile. Marrone, cercando una via d’uscita, proponeva di leggere l’accezione hjelmsleviana in funzione di quella fenomenologica, assumendo il testo come “oggetto paradossale” costruito après coup, come l’immagine percettiva del cubo merleau-pontyano.
Tuttavia, nota Paolucci, questa soluzione conduce a un idealismo semiotico: il testo finisce per coincidere con il senso che gli viene conferito dalla teoria, e l’oggetto empirico viene assorbito nella costruzione. È ciò che Marrone definisce “empiria costruita”. Ma così si cade in una “fenomenologia senza riduzione fenomenologica”, dove l’empirico non è sospeso ma semplicemente riplasmato.
Per questo Paolucci propone una strada alternativa: recuperare l’eredità strutturalista, riconoscendo al testo uno statuto enciclopedico specifico, distinto da quello delle pratiche, delle norme e delle culture. Il testo, in quanto elemento della manifestazione, va descritto e non costruito teoricamente. Tuttavia, questa posizione non implica un ritorno al positivismo: il testo è ciò che si manifesta sotto un certo rispetto, in quanto letto come “testo” da una comunità interpretante.
In questa prospettiva faneroscopica, ciò che conta è il modo in cui un oggetto viene fatto apparire come testo all’interno di una cultura, non il modo in cui la teoria lo costruisce come tale. Il testo è allora un oggetto semiotico che assume uno statuto enciclopedico specifico all’interno di una semiosfera: non è riducibile a un’entità teorica, ma neppure è un dato grezzo. È un punto di intersezione tra cultura, manifestazione e interpretazione.
Riferimento bibliografico: Claudio Paolucci, Strutturalismo e interpretazione. Ambizioni per una semiotica “minore”, Milano, Bompiani