Patrizia Violi propone una riformulazione radicale del concetto di semiosi nelle prime fasi della vita. Invece di concentrarsi sulla mente individuale del neonato, Violi sposta l’attenzione sul campo semiotico: un ambiente relazionale, intersoggettivo, corporeo, in cui la semiosi emerge come risultato di interazioni complesse. Non è la mente a generare il senso: è il fare insieme, la relazione, a rendere possibile il pensiero.
Dal comportamento riflesso alla semiosi
Molti dei comportamenti del neonato – gesti, vocalizzazioni, espressioni – possono inizialmente essere letti come reazioni riflesse. Ma nel momento in cui la madre li riceve, li interpreta e vi risponde, si crea una dinamica di significazione. Questo ciclo relazionale, fatto di proiezioni, risposte e aggiustamenti, è già una forma di semiotizzazione dell’esperienza.
Violi cita Peirce: la ripetizione di un comportamento sotto stimoli simili produce un abito, cioè una tendenza stabilizzata all’azione. È attraverso la relazione che gli abiti semiotici si formano: nel sorriso imitativo che riceve rinforzo, nel gesto che viene accolto e replicato, nell’interazione che si stabilizza.
Lo spazio della semiosi
Lo “spazio C” introdotto da Eco non va cercato nella coscienza del neonato, ma nella relazione madre-bambino. Il campo semiotico è questo spazio condiviso, dove ogni azione trova senso nell’azione dell’altro. L’interazione costruisce lo sfondo stesso in cui le azioni acquistano significato. In questa prospettiva, mente e coscienza non sono più proprietà individuali ma proprietà distribuite di un sistema interattivo.
Violi richiama a questo proposito le intuizioni di Vygotskij: il livello intersoggettivo precede quello intrapsichico. La mente si sviluppa per interiorizzazione di processi relazionali. È nella relazione che nasce la semiosi.
La mente esterna
Una simile concezione è stata avanzata da Peirce stesso: la mente è essenzialmente un fenomeno esterno. Tutta la conoscenza viene dall’osservazione, e ciò che chiamiamo “nostra” mente è solo l’aspetto interno di un processo più ampio. La mente è distribuita, e noi vi “galleggiamo sopra”, più di quanto essa appartenga a noi.
Nel contesto dell’ontogenesi, la mente esterna è il campo relazionale costruito tra madre e bambino: memoria condivisa, sistema di attese, dispositivo di senso. È questa mente esterna che regola l’apprendimento semiotico. Non esiste un “apparato mentale” individuale che precede l’esperienza: è la relazione a fornire la forma, il contenuto e le condizioni del pensiero.
La funzione alfa di Bion
Violi mette in relazione questo quadro con la teoria psicoanalitica di Wilfred Bion. Secondo Bion, il neonato non possiede ancora un apparato per pensare: ha solo elementi beta, cioè sensazioni, impressioni, affetti non ancora pensabili. È la madre, attraverso una funzione specifica (chiamata funzione alfa), a trasformare questi elementi grezzi in elementi alfa, cioè in contenuti pensabili.
La madre riceve, contiene e restituisce l’esperienza del bambino in forma trasformata. Questo processo di contenimento, descritto da Bion con il termine réverie, è una sorta di pensiero condiviso che fonde affetto, percezione e significazione. Anche in questo caso, la mente non precede il pensiero: è il pensiero relazionale a generare la mente.
Il senso nasce dalla relazione
In termini semiotici, tutto ciò può essere descritto come la proiezione di una forma su una materia: la madre agisce come dispositivo di semiotizzazione, fornendo struttura e coerenza a esperienze ancora informi. La relazione intersoggettiva è l’organon del pensiero.
Violi conclude: il significato non è né nell’oggetto né nel soggetto, ma nell’accoppiamento interattivo dei due. È la relazione che costruisce lo spazio semiosico, ed è dentro questo spazio che si formano i primi abiti, le prime intenzionalità, le prime forme di senso.
Non c’è semiosi senza relazione. E, nel caso del neonato, non c’è mente senza l’altro.
Riferimento bibliografico: Patrizia Violi. Il senso prima del linguaggio. Appunti per una proto-semiotica