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Semiotica

Dalla scienza dei segni alla semiotica del testo. Il campo semiotico e le teorie della significazione

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Il mito come funzione sociale: oltre la grammatica del racconto

Posted on 8 Giugno 2025 by semiotica.org

La difficoltà della semiotica nell’affrontare il mito non si spiega solo sul piano tecnico o metodologico. Per Ugo Volli, c’è un nodo più profondo: il mito non è un genere testuale ma una funzione culturale, una forma che alcune narrazioni assumono nella vita collettiva di una cultura.

La semiotica classica, spiega Volli, ha lavorato tradizionalmente sul “piano di immanenza”, cioè sull’analisi interna dei testi, sospendendo il contesto culturale. Ma proprio per questo si trova inadeguata di fronte alla specificità del mito, che richiede invece un metalinguaggio capace di parlare del suo insediamento sociale.

Infatti, rispetto a fiabe o altre narrazioni, la differenza del mito non sta nella sua sintassi né nella sua semantica. Greimas e Courtés osservano che il mito mette insieme categorie semantiche eterogenee come se fossero parte di un unico microuniverso. Ma ciò che conta davvero, secondo Volli, è la pretesa del mito: «il mito, cioè, pur raccogliendo azioni del tutto extraquotidiane di dei, di eroi, di animali ecc., si presenta implicitamente ma con forza come vero e insieme significativo».

Il mito ha una valenza eziologica: serve a spiegare l’origine e il senso di fenomeni empirici altrimenti inspiegabili. E lo fa attraverso una doppia verità: una verità letterale (per esempio, Prometeo ha rubato il fuoco agli dèi) e una verità strutturale (la civiltà umana nasce in opposizione agli dèi, l’ambizione va frenata, le passioni agiscono sull’anima).

Non si tratta di interpretazioni allegoriche successive, come accade nei quattro sensi della Scrittura nella tradizione medievale, ma di articolazioni originarie già presenti nel testo. È in questa articolazione che si radica la funzione sociale del mito.

Volli sottolinea che la pretesa di verità del mito si radica non tanto nella struttura narrativa quanto nella cultura che lo esprime. Il mito è tale perché la società lo accetta come «illustrazione vera della struttura del mondo naturale e sociale». In questo senso, il mito è inseparabile dai sistemi di obblighi, divieti, riti e valori di una determinata cultura.

Anche quando la semiotica riesce a individuare questa pretesa all’interno della struttura testuale, essa non può esaurire il senso del mito, che non è nel testo, ma nella società che lo genera. È per questo che Volli ricorre anche ai modelli antropologici di Lévi-Strauss, Ginzburg, Dumézil: il mito si colloca in un contesto storico-sociale ampio, spesso millenario e continentale.

Ecco dunque il nodo teorico: se il mito è una funzione sociale che produce verità culturale, esso sfugge all’analisi testuale pura. La semiotica, per affrontarlo, deve superare i propri confini classici. E forse deve anche interrogarsi su se stessa: perché tende a riconoscere come “mito” solo ciò in cui non crede. Volli osserva che «noi trattiamo come miti le narrazioni con pretesa alla verità e alla significatività solo quando esse appartengono ad altre culture», oppure a settori della nostra cultura che non riconosciamo come veri (per esempio, testi religiosi da parte di non credenti).

In altre parole, il mito è tale solo quando è decaduto: è il racconto a cui altri credono, ma noi no. Così, non chiamiamo “mito” il Big Bang, anche se presenta caratteristiche simili a un mito cosmogonico; lo consideriamo scienza. Il mito, dunque, è una categoria critica, spesso retrospettiva, applicata con un certo scetticismo.

È in questa distanza tra funzione sociale e statuto semiotico che si gioca il vero problema teorico. Volli suggerisce che solo superando l’autonomia del testo e accettando la complessità delle pratiche culturali si può pensare a una semiotica del mito che sia davvero efficace.


Riferimento bibliografico: U. Volli, Dalla semiotica del mito al mito della semiotica

Tags:
Mito , Segno , Ugo Volli

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