La semiotica con vocazione analitica ha sempre messo a punto delle strutture per descrivere e analizzare i propri oggetti. Ma il loro statuto ontologico ha generato fin dall’inizio una questione teorica fondamentale: le strutture sono reali o astratte? Sono presenti nei testi o si trovano piuttosto nella mente dell’analista?
Umberto Eco aveva affrontato con decisione questo nodo teorico nel 1968, nella sezione D de La struttura assente, interamente dedicata all’epistemologia dei modelli strutturali. Traini riprende questo interrogativo per mostrare come gli assunti dello strutturalismo abbiano influito sullo sviluppo della semiotica successiva.
Un esempio paradigmatico è fornito dalla celebre analisi morfologica di Vladimir Propp. Studiando un corpus di fiabe russe, Propp aveva identificato un numero ridotto e ricorrente di funzioni narrative, concatenate secondo un ordine costante. Le singole fiabe differiscono dunque per selezione e combinazione, ma si conformano tutte a una struttura narrativa di base, “monotipica”. Tale struttura funge da unità di misura per confrontare i racconti sia in prospettiva sincronica che diacronica, e rende possibile ipotizzare una protoforma comune di matrice mitica.
Propp ha così posto le basi per un modello che sarà ampliato da Greimas nel percorso generativo del senso, articolato in livelli profondi, attanti, schemi canonici, spazi e tempi. Ma dove risiedono davvero queste strutture? Nei testi? Nella mente? O sono strumenti concettuali?
Eco, già nel 1968, si chiede: «La struttura è un oggetto in quanto strutturato o è l’insieme di relazioni che strutturano l’oggetto ma che sono astraibili dall’oggetto?» La distinzione è cruciale: si tratta di considerare la struttura come una “sostanza” organizzata o come un “modello” astratto, ossatura intelligibile e operativa.
Dietro questa oscillazione si riflette, secondo Traini, un’antica disputa: quella sugli universali. Fin dal Medioevo, con le posizioni estreme di Roscellino e Guglielmo di Champeaux, si è discusso se gli universali — come “uomo” o “animale” — siano reali o solo nomi. In parallelo, la riflessione strutturalista si interroga: la struttura comune che si desume da più oggetti è la loro essenza (ipotesi realistica) o una costruzione descrittiva (ipotesi nominalistica)?
Eco rilegge le principali scuole linguistiche alla luce di questo interrogativo. Saussure, pur non usando il termine “struttura”, definisce la lingua come sistema di valori oppositivi, disinteressandosi della materia per focalizzarsi sulle relazioni. Hjelmslev rafforza questa visione, introducendo le forme dell’espressione e del contenuto come schemi relazionali. Il Circolo di Praga, infine, accentua l’astrazione della struttura come rete di differenze, come nel caso dei fonemi, entità immateriali ma operanti.
Per Eco — ricorda Traini — la funzione del metodo strutturale è individuare omologie formali tra fenomeni diversi e, da esse, dedurre trasformazioni. La struttura, dunque, è un modello differenziale, operativo solo se applicabile a oggetti molteplici. La sua utilità non è legata all’essere ma all’efficacia descrittiva: «si può legittimamente parlare di struttura solo quando sono in gioco più elementi da cui astrarre un modello costante».
Traini osserva però che questa posizione “neo-nominalistica” non elimina del tutto l’ancoraggio empirico: le strutture si fabbricano attraverso l’esame di oggetti concreti. Seguendo Hjelmslev, la teoria strutturale deve essere arbitraria (cioè costruita) ma anche adeguata (cioè fondata su dati): non è una mera astrazione, né una copia dell’oggetto.
In questo quadro, la struttura emerge come strumento metalinguistico, capace di uniformare oggetti disparati e di essere riapplicata in contesti diversi. È ciò che accade, ad esempio, nella semiotica della cultura di Omar Calabrese, che cerca forme comuni (narrative, plastiche, tematiche) in film, quadri, partiture, teorie e comportamenti, per individuarvi un “gusto” epocale. Questo approccio, che Paolo Fabbri ha chiamato estetica sociale, è anche una forma operativa di strutturalismo.
A partire da questa analisi, Traini chiarisce che il primo grande nodo teorico è proprio questo: se la struttura vada considerata nell’oggetto oppure come modello per descrivere l’oggetto. La risposta, provvisoria e metodologica, è che la struttura è uno strumento esplicativo, un’ipotesi da verificare attraverso l’analisi comparativa.
Riferimento bibliografico: Stefano Traini, La struttura assente e il principio di immanenza. Qualche riflessione sul metodo semiotico, in “RIFL/SFL”, 2017, pp. 245-254.