Paolo Fabbri propone una convergenza tra due approcci a lungo ritenuti inconciliabili: da un lato la semiotica dell’inferenza e della cognizione, rappresentata da Peirce; dall’altro, la semiotica della narratività e della metaforicità, legata alla tradizione di Greimas. Il punto di contatto, sostiene Fabbri, è la teoria dell’enunciazione.
Nella definizione peirciana, ogni segno rinvia a un altro segno attraverso un interpretante, che non è una persona empirica, ma un ulteriore segno che compie l’operazione inferenziale. Eco ha sottolineato come anche questo interpretante sia segno, parte della catena semiosica. In tal modo, la soggettività non è esterna alla semiosi, ma vi è inclusa.
Tuttavia, Peirce — pur rilevando l’importanza del dubbio come passione epistemica e dell’inferenza come superamento di uno stato di turbamento — non fornisce strumenti per formalizzare questa istanza di interpretazione. È qui che entra in gioco la nozione di enunciazione, sviluppata nella tradizione saussuriana. L’enunciazione è l’istanza che iscrive l’intersoggettività nel testo stesso, facendo sì che l’io e il tu — o i loro simulacri — siano già presenti nel discorso, non come persone empiriche, ma come posizioni discorsive.
Fabbri mostra come l’enunciazione sia presente non solo nei testi verbali, ma anche nella pittura, nella musica, nel cinema. Louis Marin ha analizzato la pittura vascolare greca in cui la figura della Gorgone guarda direttamente l’osservatore: un esempio di “tu” iscritto nell’immagine. Allo stesso modo, nella pittura medievale, la posizione frontale o di profilo dei personaggi — come Mosè — implica una diversa relazione enunciativa: frontalità significa interpellazione diretta; profilo distacco narrativo.
Questa analisi porta Fabbri a ridefinire la distinzione tra semantica, sintassi e pragmatica: non si può più relegare la pragmatica all’esterno del testo. Ogni testo, afferma, porta iscritte le sue condizioni di comunicazione. Il testo non rappresenta solo il mondo, ma rappresenta anche il proprio essere in comunicazione. In questo senso, la pragmatica è “la dis-implicazione dal testo delle sue condizioni di comunicazione”.
Questa ridefinizione del testo apre anche alla metafora come dispositivo cognitivo, non solo stilistico. Fabbri estende la nozione di metafora alla soggettività: quando si dice “io sono il mio lunedì”, si costruisce una metafora pronominale, non meno significativa di “Achille è un leone”. Si tratta di configurazioni in cui l’io si dice attraverso altro — e ciò vale anche per l’enunciazione.
L’analogia si estende alla narrazione. La parabola evangelica del seminatore, ad esempio, può essere letta come una metafora narrativa. Tuttavia, questa stessa parabola può generare inferenze divergenti: è un’ottima metafora per distinguere i destinatari di un messaggio, ma una pessima metafora per rappresentare la lingua, poiché implica l’idea che le parole siano semi identici. Qui Fabbri introduce l’idea, ripresa da Gregory Bateson, di abduzione come estensione laterale della metafora, una forma di ragionamento che agisce per configurazione, non per deduzione.
La metafora e l’inferenza sono entrambe forme di conoscenza, due strategie cognitive complementari. Le metafore non sono semplici ornamenti, ma esperimenti mentali, come li chiama Thomas Kuhn. Racconti, parabole, immagini possono produrre trasformazioni cognitive equivalenti a quelle ottenute in laboratorio.
La semiotica della svolta, afferma Fabbri, sarà quella capace di tenere insieme narratività e inferenza, estetica e cognizione. Una semiotica che non separa più i tropi dalla logica, ma riconosce che la metafora è una forma di prova, capace di generare nuova conoscenza. Come affermava René Thom citando Lorenz: “tutte le metafore sono vere” — o meglio: sono produttive, perché capaci di falsificare, allargare, deviare e rilanciare i percorsi del sapere.
Riferimento bibliografico: Fabbri, P. (1998). La svolta semiotica. Italia: Laterza.