Nella metà degli anni Ottanta, la semiotica appare attraversata da una condizione che Marrone — allora — descriveva come tipica delle scienze soggette a “crisi cicliche”. La disciplina oscillava fra entusiasmi teorici e improvvise restrizioni di campo, fra congetture e verifiche, mentre cresceva il numero di interventi che annunciavano, con toni diversi, la “crisi”, la “morte” o “l’inutilità” dello studio dei sistemi di significazione. Marrone sosteneva che la semiotica non potesse più permettersi di “riposare sugli allori” e che si imponesse un riesame delle sue basi epistemologiche.
Nel ricordare gli anni dell’euforia strutturalista e delle sue ricadute, Marrone osservava come i propositi saussuriani e i ribaltamenti barthesiani si presentassero ormai come figure sbiadite di un entusiasmo esaurito. La disciplina, pur diffondendosi in maniera orizzontale e nazionale-popolare, non aveva conosciuto un parallelo approfondimento critico dei propri nodi centrali. Ciò produceva una condizione che egli definiva “scomoda e disagiata”: la semiotica sembrava ripiegata su se stessa, mentre le sue cronache più recenti avrebbero già richiesto — sosteneva — i loro annali, a testimonianza del fatto che “i conti non sono per nulla chiusi”.
Un punto di osservazione privilegiato di questa situazione era stato, per Marrone, il terzo Congresso dell’International Association for Semiotic Studies, tenuto a Palermo nel 1984. In quella occasione, la molteplicità delle teorie, spesso divergenti o contraddittorie, aveva reso evidente l’incertezza dello statuto disciplinare: il profano non sapeva da dove guardare e il neofita non mostrava particolare sicurezza. Nelle parole di Jerzy Pelc, che Marrone riportava come esemplari, la semiotica si trovava “sola con se stessa”, nostalgica delle sicurezze passate e attraversata da ambiguità teoriche.
All’interno di questo scenario emergeva una questione decisiva: la necessità di una fondazione teoretica della scienza dei segni. Marrone sosteneva che la semiotica non potesse più essere concepita come “ancilla linguisticae”, né come un semplice metodo utile per analizzare forme culturali eterogenee. Al contrario, avanzava pretese di autonomia e reclamava una più forte istanza filosofica. La rinnovata attenzione al pensiero di Charles Sanders Peirce era, per Marrone, un segno inequivocabile di questo mutamento: studi come quelli di Carlo Sini, Emilio Garroni, Ferruccio Rossi-Landi e Umberto Eco venivano citati come esempi di un movimento che riportava la disciplina verso interrogativi filosofici e epistemologici di fondo.
Da ciò discendeva una domanda non eludibile: si fa filosofia facendo semiotica, oppure la semiotica richiede una preliminare interrogazione filosofica? Marrone non offriva una risposta definitiva, ma indicava il rilievo di proposte come quella di Karl Otto Apel, che reinterpretava la nozione di trascendentale alla luce della triadicità peirceana, superando il tradizionale dualismo soggetto-oggetto.
Questa tendenza verso la rifondazione filosofica si intrecciava con una questione più ampia: il destino dello strutturalismo. Marrone osservava che era difficile trovare un accordo sul significato del termine, ma che era impossibile ignorarne il peso teorico. Il nesso tra strutturalismo e semiotica diventava oggetto di controversia: c’era chi vedeva nella semiotica dell’interpretazione il superamento di una precedente semiotica del codice e chi, al contrario, rivendicava il valore propulsore della metodologia strutturale. Richiamando un avvertimento del “primo Derrida”, Marrone ricordava che lo strutturalismo non poteva essere ridotto a un semplice oggetto storico, perché costituiva innanzitutto “un’avventura dello sguardo”.
Il nodo teorico più delicato riguardava la nozione di segno. Marrone sottolineava che, per Peirce, il segno conserva sempre un carattere inferenziale e traducibile, producendo un accrescimento conoscitivo — ciò che lo strutturalismo aveva codificato nel fenomeno della connotazione. Altri ritenevano invece che la semiotica dovesse concentrarsi sui sistemi di significazione e non sull’idea di segno come dato: il segno, in questa prospettiva, sarebbe un “risultato costruito”, sempre rinviato e mai definitivamente fissato.
Da queste divergenze emergevano le due tendenze della semiotica contemporanea. Marrone osservava che esse non si limitavano alle origini saussuriane e peirceane, ma rispondevano a interrogativi culturali differenti e talvolta a divergenze ideologiche profonde. Le obiezioni di Bonfantini — rivolte alla tradizione greimasiana, accusata di una predilezione tassonomica e di una scarsa attenzione al carattere inferenziale del senso — e le critiche di Rastier alla semiotica di eredità peirceana, accusata di delegare alla pragmatica una funzione di “serva-padrona”, indicavano un confronto già in atto.
In questo contesto si collocava anche il dibattito tra Eco e Greimas: mentre Eco distingueva tra “semantiche a dizionario” e “semantiche ad enciclopedia”, Greimas vedeva nella nozione di enciclopedia un “aveu d’impuissance”, un riconoscimento della difficoltà di organizzare coerentemente l’universo del sapere.
Infine, Marrone estendeva lo sguardo a un ulteriore livello: l’allargamento delle problematiche semiotiche verso campi ritenuti tradizionalmente estranei, come le scienze della natura, la biologia o la matematica. Le posizioni di Giorgio Prodi e di Thomas A. Sebeok — riportate allora come esempi significativi — mostravano come il rapporto tra semiotica e scienze esatte sollevasse interrogativi metodologici nuovi, legati in particolare alla questione della “soglia” tra natura e cultura.
Queste prospettive aprivano, secondo Marrone, un orizzonte di questioni ancora irrisolte: dalla formalizzazione matematica (con i riferimenti a René Thom e a Jean Petitot) alla possibilità che i processi biologici, come la trascrizione del DNA, potessero essere letti in chiave semiotica.
Il risultato complessivo era, nelle parole di Marrone, un quadro “composito e stimolante” di idee, problemi e proposte. La disciplina, pur diffusa capillarmente, restava giovane, instabile, attraversata da spinte teoriche divergenti e da un allargamento continuo del proprio campo d’indagine. Proprio per questo egli considerava necessario interrogarsi sulle direzioni della ricerca e sui segni — “indizi, impronte o sintomi” — che nel presente potevano lasciar intravedere il futuro prossimo della semiotica.
Riferimento bibliografico: Gianfranco Marrone, “Premessa”, in Dove va la semiotica?, Quaderni del Circolo Semiologico Siciliano, n. 24.
