Nel centenario della nascita di Gilles Deleuze (1925-1995), la rivista Sign Systems Studies dedica un numero speciale a Deleuze, Guattari e la semiotica. Come nota Ott Puumeister, si tratta anche di un anticipo del centenario di Félix Guattari (1930-1992), “che dovrebbe essere presente in ogni celebrazione dedicata a Deleuze come il suo più stretto collaboratore e amico, nel senso filosofico del termine”.
La prospettiva deleuziana e guattariana è “piuttosto peculiare”, poiché non si concentra sulla rappresentazione ma su ciò che avviene al di sotto di essa. Il loro pensiero è “forzatamente critico della rappresentazione”, sia nella storia della filosofia occidentale (Difference and Repetition, 1968) sia nella psicoanalisi (Anti-Oedipus, 1972). Anche se non prendono di mira direttamente la teoria semiotica, la loro critica si estende naturalmente ad essa, perché il suo concetto centrale resta la rappresentazione.
Il problema, osserva Puumeister, è che questa categoria tende a dividere la realtà in due: “un regno pre-esistente di oggetti e un dominio di soggetti che danno significato ai primi”. Di conseguenza, la semiotica che adotta questa immagine si ritrova ancora “posseduta dall’idea platonica di una realtà pura e fisica a cui può partecipare solo per separazione, solo per tradimento”.
Deleuze e Guattari rifiutano questa separazione. Non ha senso, per loro, chiedersi a quali oggetti un segno corrisponda, poiché “la rappresentazione non è ancora avvenuta”. I segni, in questa prospettiva, “non hanno oggetti né significati, né sono operati da soggetti”. Si tratta di segni “non-rappresentazionali” o “a-significanti”, che non appartengono al mistico ma al pragmatico: sono segni del mondo, che intervengono nella realtà.
Nel quarto capitolo di A Thousand Plateaus (1980), Deleuze e Guattari elaborano una teoria pragmatica del linguaggio, che lo intende non come rappresentazione ma come intervento. “L’unità elementare del linguaggio – afferma Puumeister citando i due autori – è la parola d’ordine (order-word).” Il linguaggio, dunque, “non è la comunicazione di un segno come informazione, ma la trasmissione della parola come parola d’ordine”.
Ne consegue che ogni enunciato possiede una doppia funzione: dire qualcosa e, nello stesso tempo, riprodurre come questo qualcosa deve essere detto e compreso. Il linguaggio ordina sia nel senso del comando sia in quello dell’organizzazione.
Con questa mossa, Deleuze e Guattari portano gli atti performativi di J. L. Austin al centro stesso del linguaggio: “ogni linguaggio è performativo”, nel senso che trasforma emittenti e destinatari in soggetti impegnati a riprodurre le regole e l’ordine delle cose. La linguistica, in questa prospettiva, diventa interamente pragmatica – una questione politica che riguarda “l’ordine della società, del vicinato, della cultura, della natura”.
Puumeister sottolinea che questa concezione non implica che tutto diventi linguaggio. Al contrario: altri sistemi espressivi continuano a resistere ai tentativi ordinatori del linguaggio umano. Persino la Terra è “in un processo permanente di articolazione”, in cui anche la stratificazione geologica è operata dalle “pinze doppie” di contenuto ed espressione. Il linguaggio umano non può dunque vantare alcuna trascendenza rispetto al mondo: può solo produrre effetti immanenti.
Una semiotica non-significante mira a comprendere proprio questi effetti. I segni non rappresentazionali non sono privi di senso; assumono significato in altro modo. Essi nascono negli incontri che spingono a non interpretare per riconoscere, ma a sperimentare: a “co-differenziarsi con il segno”. Il segno non è uno strumento di “saming”, di identità, bensì di “othering”, di alterazione. Incontrare segni che non comprendiamo immediatamente – i veri segni – ci pone su un percorso di divenire: “non interpretiamo per fare dell’altro la rappresentazione di noi stessi, ma per trasformarci insieme, creare qualcosa di nuovo: un nuovo testo, una nuova situazione, una nuova relazione”.
Deleuze e Guattari chiamano “scienza minore” questo tipo di semiotica, contrapposta a una “scienza maggiore”. La prima “segue” i processi di differenziazione e di divenire; la seconda “riproduce”, costruendo un’interiorità gerarchica come una “realtà semiotica” separata. Le scienze minori, invece, “seguono” – e seguire significa essere trascinati nel movimento, inventare concetti in cammino, “dentro l’esteriorità”.
Puumeister conclude chiedendo: che cosa diventa la semiotica quando incontra Deleuze e Guattari? Li “catturerà e rappresenterà”, come farebbe una scienza maggiore, oppure li “seguirà”, intraprendendo essa stessa un cammino di divenire minore? Gli autori di questo numero speciale, scrive, seguono il motto di Deleuze: “Nessun libro contro qualcosa ha mai importanza; contano solo i libri per qualcosa, che sappiano produrla”.
Riferimento bibliografico: Ott Puumeister, Editor’s preface: For a minor semiotics, Sign Systems Studies, 53(1/2), 2025, pp. 7–11.