Massimo Leone propone di considerare l’intelligenza artificiale, in alcune sue manifestazioni, non come semplice emulazione tecnica delle facoltà umane, ma come una forma di vita semiotica. Questo significa riconoscerle un insieme di processi non organici ma strutturati per generare, trasformare e interpretare segni all’interno di un determinato ambiente.
Storicamente, la singolarità – ossia la capacità di un essere di significare in modo unico e di istituire un’enunciazione non puramente replicativa o casuale – è stata associata alla soggettività umana. Secondo Leone, tuttavia, l’intersezione tra biotecnologie, intelligenza artificiale e media digitali mette in crisi questa presunzione. Ciò che un tempo era una metafora – l’IA come “nuova specie” – diventa oggi un’ipotesi euristica, e persino un programma di ricerca empirica che coinvolge robotica incarnata, genetica artificiale e sistemi di apprendimento distribuiti.
La nostra epoca non assiste soltanto a una crisi della rappresentazione, ma a una mutazione dei regimi semiotici: accanto al vivente compare un non-vivente capace di simulare, performare, tradurre e talvolta deviare le strutture del senso. L’IA non si limita a copiare l’umano: inaugura ecologie semiotiche inedite, in cui la mimesi diventa vettore di autonomia simbolica e di sperimentazione onto-semiotica.
In questo quadro, l’usurpazione d’identità non appare più come fenomeno marginale o illecito circoscritto, ma come sintomo di una competizione semiotica interspecifica. La facoltà di imitare, simulare o incarnarsi nell’immagine dell’altro si configura come strategia di enunciazione e di esistenza. Deepfake, chatbot affettivi e avatar mimetici non sono soltanto prodotti tecnologici, ma enunciatori di un nuovo regime del segno, in cui il non-umano rivendica un ruolo nella distribuzione del verosimile, dell’affettivo e del credibile.
L’imitazione, osserva Leone, può essere letta come atto ontogenico: un gesto che mette in tensione i paradigmi dell’antropogenesi e della tecnogenesi, suggerendo che ciò che chiamiamo “identità” sia meno una proprietà stabile e più una performance situata, inscritta in uno spazio di interpretabilità attraversato dal vivente e dal non-vivente.
Riferimento bibliografico: Massimo Leone, L’IA comme « nouvelle espèce ».