Ogni riflessione sull’autorità giuridica e sulla sua legittimazione contemporanea richiede, secondo Massimo Leone, di interrogarsi sui regimi di spazializzazione attraverso cui si produce la sovranità. Il discorso giuridico, pur provenendo da un’istanza enunciativa che supera la contingenza dei singoli locutori, non può operare senza mediazioni materiali, prossemiche e iconiche.
L’autorità giuridica è definita come un sintagma spaziale di una competenza enunciativa trascendente. La sua efficacia non si limita al contenuto normativo, ma coinvolge l’interazione tra architettura, gestualità codificata e tecnologie dell’indirizzamento, che insieme istituiscono una scena legittima dell’enunciazione del giusto.
In quest’ottica, il palazzo di giustizia non è né semplice scenografia né contenitore neutro: esso costituisce un dispositivo semiotico di trascendenza immanente. Si tratta di una configurazione simbolica che articola regimi eterogenei — giuridici, politici, estetici, memoriali — organizzando lo spazio in modo tale che la distanza diventi condizione necessaria per l’ascolto e la legittimazione.
Ma questo regime d’autorità è oggi minacciato da un processo di desimbolizzazione accelerata. Da un lato, l’architettura monumentale del diritto viene contaminata dalle logiche del populismo spettacolare; dall’altro, la circolazione digitale e non filtrata del discorso mina le mediazioni che garantiscono l’efficacia del giudizio. Leone parla di una disgregazione progressiva delle condizioni di possibilità semiopratiche dell’autorità giuridica.
Questa armatura simbolico-architettonica, prossemico-rituale e tecnodiscorsiva è ciò che consente l’attualizzazione performativa del discorso giuridico nello spazio sociale. Senza di essa, il diritto si svuota. Di conseguenza, l’interesse dell’analisi non è tanto il contenuto prescrittivo delle norme, quanto le modalità di incarnazione semiotica della loro legittimità: secondo regimi differenziali di materialità, che intrecciano iconizzazione, ritualizzazione e spazializzazione codificata dell’enunciazione istituente.
Il rischio, secondo Leone, è che il tribunale come spazio del giudizio venga sostituito dal dispositivo mediatico come spazio di riconoscimento. La spettacolarizzazione populista sostituisce alla solennità simbolica dell’istituzione la logica dell’apparizione e dell’affetto. In questo scenario, lo studio della prossemica giudiziaria diventa decisivo per comprendere come la giustizia sia sempre più insidiata nella sua legittimità simbolica.
Per questo Leone propone una discesa dall’astrazione onto-semiotica all’analisi concreta della scena giudiziaria, a partire dallo spazio urbano del diritto, dai suoi edifici, dalle sue soglie architettoniche e dai suoi rituali di accesso. La giustizia, per agire, ha bisogno di essere visibile e incarnata. Quando queste forme simboliche vengono svuotate, il diritto rischia di non valere più.
Riferimento bibliografico: Massimo Leone, Les normes assiégées, in «Actes Sémiotiques», n°133, 2025.