Stefano Traini individua un nodo teorico centrale nella riflessione semiotica: la struttura è uno strumento operativo per analizzare testi oppure una realtà mentale che precede e informa la comprensione stessa?
Nel campo delle scienze cognitive si è progressivamente affermata l’idea che la narratività non sia tanto una proprietà testuale quanto una disposizione mentale del lettore. La narratologia cognitiva sostiene infatti che gli schemi narrativi — come il percorso generativo, gli attanti, le sequenze canoniche — risiedano nei cervelli degli individui, i quali processano l’esperienza e i testi in modo narrativo grazie a matrici cognitive preesistenti.
Valentina Pisanty ha sviluppato questa prospettiva, definendo la narratività come una modalità fondamentale del pensiero umano. Ne sarebbe prova, ad esempio, la tendenza istintiva ad attribuire un nesso causale tra eventi presentati in successione — il classico caso del “post hoc ergo propter hoc” — anche quando il testo non lo prevede esplicitamente. Tuttavia, precisa Pisanty, l’ipotesi dell’esistenza di strutture narrative “cablate” nel cervello resta indimostrabile. Le neuroscienze, infatti, non consentono ancora un accesso diretto ai meccanismi mentali, e il lavoro cognitivo può essere solo ricostruito a partire dai suoi effetti osservabili: testi, interpretazioni, risposte sensibili.
Stefano Traini sottolinea che questa discussione riprende la seconda oscillazione individuata già da Umberto Eco nel 1968: la struttura va intesa come strumento euristico o come entità ontologica, una forma profonda e definitiva? Hjelmslev, coerentemente con la sua impostazione metodologica, sosteneva che lo strutturalismo dovesse evitare ogni presa di posizione ontologica. La struttura non è qualcosa che è, ma qualcosa che serve — uno strumento funzionale alla descrizione dei fenomeni. «Un metodo deve preoccuparsi della bontà dei risultati, non dell’essere degli oggetti», sintetizza Zinna citato da Traini.
In questa logica, lo strutturalismo non ha bisogno di assumere una posizione realista né nominalista: ciò che conta è l’adeguatezza del modello all’esperienza empirica. Non importa se le strutture “esistano davvero”: conta che funzionino nell’analisi.
Eco, però, registra come alcuni autori tendano a varcare questa soglia metodologica. Claude Lévi-Strauss, ad esempio, afferma che la funzione dei modelli è costruire una “intelligenza investigativa” — ma giunge a ipotizzare che l’universalità di tali modelli riveli l’esistenza di meccanismi universali del pensiero. Il passaggio è sottile ma decisivo: dal modello come strumento si passa al modello come riflesso di una struttura ontologica profonda, una sorta di Ur-codice inscritto nella mente umana.
Eco mette in guardia contro questo slittamento: «aver mostrato – operativamente – come funzioni l’applicazione di codici invarianti a fenomeni vari, non dimostrerà forse l’esistenza di meccanismi universali del pensiero?» Si tratta, secondo Traini, di una trasformazione dalla concezione operativa a una concezione sostanzialista: se i modelli funzionano sempre, allora devono corrispondere a una realtà universale.
Questa deriva è ancora più accentuata nel pensiero di Jacques Lacan, che studia l’inconscio come linguaggio e lo struttura in modo rigidamente simbolico. Ma Eco osserva che proprio questa ricerca di strutture ultime conduce a entità che sfuggono alla strutturazione stessa: l’Inconscio, l’Altro, l’Essere. È Heidegger, con la sua concezione dell’Essere inattingibile salvo che attraverso l’interpretazione ermeneutica, a fornire il sottofondo filosofico di questa impasse.
Per Eco, la ricerca di una struttura definitiva approda inevitabilmente all’assenza della struttura. Essa non è più un oggetto da scoprire, ma uno strumento ipotetico: «non verrà più vista come il termine oggettivo di una ricerca definitiva, ma come lo strumento ipotetico con cui saggiare i fenomeni per condurli a correlazioni più vaste».
Traini conclude che la struttura, in questa visione, è un modello esplicativo, dapprima teorico e poi soggetto a verifica empirica induttiva. È come un modello kepleriano: una costruzione che va messa alla prova, e non un registro baconiano che semplicemente annota l’esperienza. La possibilità che tali strutture riflettano effettivamente un funzionamento costante della mente umana rimane, per Eco, una ipotesi feconda, ma solo in quanto stimolo per ulteriori verifiche e non come verità assiomatica.
Riferimento bibliografico: Stefano Traini, La struttura assente e il principio di immanenza. Qualche riflessione sul metodo semiotico, in “RIFL/SFL”, 2017, pp. 245-254.