All’interno della classificazione peirceiana dei segni — che distingue tra icone, indici e simboli — l’icona occupa una posizione teoricamente centrale nella riflessione sulla motivazione del segno. Essa è definita da Peirce come quel segno che «è correlato al suo oggetto in virtù di un carattere di similarità». La relazione iconica ha luogo quando c’è motivazione per somiglianza tra il segno e il suo oggetto.
Tuttavia, come osserva Stefano Traini, «i segni sono entità complesse in cui possono coesistere diverse caratteristiche». Le icone stesse non costituiscono un dominio puramente naturale o trasparente. «Ogni immagine materiale — un dipinto, un disegno, una caricatura — è anche largamente convenzionale nel suo modo di rappresentazione». Riconoscere una caricatura, ad esempio, non dipende esclusivamente dalla somiglianza, ma anche — e soprattutto — dall’essere stati addestrati a riconoscere un certo stile, un certo tratto.
Per rendere conto di questa duplicità, Peirce introduce il termine tecnico di ipoicone, utile a designare quelle forme iconiche che, pur fondate su una somiglianza motivata, includono un certo grado di codificazione. È proprio il problema della definizione dell’iconismo ad aver alimentato un ampio dibattito nella semiotica degli anni Sessanta e Settanta. Da un lato vi erano gli studiosi che mettevano in discussione il concetto stesso di somiglianza, preferendo parlare di regole per la produzione di similarità (tra cui Eco e Volli); dall’altro, chi invece intendeva difendere la validità del principio della somiglianza come base dell’icona (Maldonado).
Massimo Gensini, richiamato da Traini, propone una distinzione interna all’iconicità che consente di superare tale impasse. Egli distingue tra motivatezza naturale e motivatezza logica. La prima si riferisce a una somiglianza percettiva e spontanea, la seconda a una coerenza strutturale che si può formalizzare in termini di regole.
In questa prospettiva, Traini osserva che, in termini di geometria proiettiva, «il rapporto tra un oggetto e la sua rappresentazione è iconico se esiste una regola costante che mette in connessione i punti delle due entità considerate». L’esempio tratto da Eco [Kant e l’ornitorinco] illustra chiaramente questo principio: una serie di oggetti A viene rappresentata in A1 sulla base di un solo criterio pertinente, l’altezza relativa tra gli elementi. Ne deriva una configurazione iconica in cui gli oggetti di A diventano segmenti verticali in ordine decrescente. Il rapporto tra rappresentato e rappresentazione è detto omomorfico: esso preserva alcune proprietà strutturali, pur non mantenendo l’identità formale (non è, cioè, isomorfico).
Questa riflessione porta Traini ad accogliere l’ipotesi proposta da Gensini per «smussare l’opposizione drastica tra iconicità e arbitrarietà». Piuttosto che immaginare i codici come strutture rigide e univoche, sarebbe più opportuno pensarli come sistemi che consentono ai segni di oscillare tra un massimo grado di arbitrarietà e un massimo grado di iconicità. In tale visione, nessun segno si collocherebbe esclusivamente su uno dei due poli: tutti i segni parteciperebbero, in misura variabile, di entrambi i caratteri.
In questo senso, la posizione di Eco [Kant e l’ornitorinco] risulta determinante. Egli individua tre livelli problematici nel dibattito sull’iconismo degli anni Settanta: (i) la natura iconica della percezione; (ii) la natura iconica della conoscenza in generale; (iii) la natura dei segni iconici in quanto tali (ipoicone). Traini evidenzia come oggi il dibattito si stia riorientando soprattutto sui primi due aspetti, ponendo l’iconismo al centro della riflessione epistemologica.
Se, infatti, il primo passo per conoscere qualcosa è riconoscerlo come appartenente a una categoria, allora l’iconicità può essere pensata come una funzione cognitiva primaria. Essa opererebbe come meccanismo di mediazione nell’accesso alla realtà, nella misura in cui consente al soggetto di stabilire relazioni strutturate tra percezione e conoscenza. L’icona non rappresenterebbe quindi solo una forma tra le altre del segno, ma una modalità fondamentale dell’organizzazione dell’esperienza.
Riferimento bibliografico: Traini, Stefano. Le due vie della semiotica: Teorie strutturali e interpretative (Strumenti Bompiani)