Il comportamento estetico viene affrontato come una dimensione fondamentale dell’attività semiotica, e non come un semplice ornamento della vita biologica. L’analisi muove dalla prospettiva peirceiana secondo cui il sé non è una sostanza statica, ma un processo che si costituisce nell’azione dei segni. In questo quadro, il comportamento estetico appare come una modalità primaria attraverso cui il sé biosemiotico si rapporta al proprio ambiente.
Il punto di partenza è l’idea, ripresa dalla riflessione di Thomas A. Sebeok, che negli animali – e dunque anche nell’umano – esistano comportamenti estetici che sembrano paradossali dal punto di vista adattivo. Essi non incrementano direttamente la sopravvivenza, e tuttavia persistono come tratti stabili. Paul Cobley sintetizza questo paradosso affermando che il comportamento estetico consiste nel «potenziare la sopravvivenza non potenziando la sopravvivenza» [traduzione nostra]. Il comportamento estetico, in questa prospettiva, non è uno strumento funzionale immediato, ma una dimensione strutturale della semiosi vivente.
Il nodo centrale di questo comportamento è individuato nella propensione a classificare. Sebeok osserva che la capacità di classificazione ha avuto un chiaro valore biologico: distinguere, ordinare, riconoscere ricorrenze nell’esperienza sensoriale consente di orientarsi nell’ambiente. Tuttavia, questa stessa propensione eccede il suo ruolo strettamente adattivo. L’animale non si limita a classificare per sopravvivere, ma manifesta una particolare attrazione per il parallelismo, per le strutture di somiglianza e differenza che producono una forma di piacere.
Sebeok sottolinea che «la propensione a classificare sembra aver acquisito, attraverso l’evoluzione, un valore di sopravvivenza decrescente» [traduzione nostra], e tuttavia continua a esercitare una forza significativa nel comportamento. Il parallelismo diventa così una fonte di attrazione estetica, capace di operare anche quando il legame con il contesto biologico originario è allentato. In questo senso, il comportamento estetico non coincide con una strategia finalizzata, ma con una disposizione semiotica che struttura l’esperienza.
Un esempio rilevante è offerto dalla pratica della denominazione negli animali. Sebeok osserva che alcune specie «attribuiscono reciprocamente e portano nomi propri» [traduzione nostra], attraverso segni acustici o gestuali che consentono di individuare ciascun membro come distinto dagli altri. Questa attività semiotica di assegnazione e riconoscimento non ha un valore puramente funzionale: essa introduce una forma di individuazione che richiama il gioco simbolico e una forma embrionale di iconicità. Il processo di nominazione permette di distinguere il proprio sé dal non-sé, inscrivendo la relazione in una struttura di parallelismo che produce riconoscimento.
Da questa prospettiva, il sé biosemiotico non coincide con il corpo inteso come semplice macchina reattiva. Seguendo l’interpretazione di Sebeok e la lettura peirceiana sviluppata da Vincent Colapietro, il sé è il risultato di un processo semiotico continuo. Esso non è localizzato nel corpo, ma emerge come «il risultato di un processo semiotico concepito come un’entità aperta allo sviluppo» [traduzione nostra]. Il sé è dunque un’agenzia che si costituisce nel tempo, attraverso l’interazione tra organismo e ambiente.
Questa agenzia si fonda su una struttura triadica: il segno, l’oggetto e l’interpretante. Il sé, in quanto interpretante, non è riducibile a una reazione meccanica; esso implica una continuità di abitudini e una capacità di mediazione. Colapietro sottolinea che l’organismo umano è «un meccanismo per le reazioni, una fonte di istinti, un mezzo per la semiosi e una base per l’acquisizione di abitudini» [traduzione nostra]. Il comportamento estetico rientra in questa dinamica come momento in cui la semiosi si orienta verso la qualità, verso il sentire delle somiglianze e delle differenze.
Nel comportamento estetico animale, il sé opera principalmente come agenzia riflessiva: reagisce all’ambiente, struttura l’esperienza attraverso classificazioni e parallelismi, ma non tematizza il valore come qualità autonoma. Tuttavia, proprio questa dimensione prepara il terreno per lo sviluppo di forme più complesse di semiosi. La continuità tra animale non umano e umano non è una semplice analogia, ma una transizione di grado.
Il comportamento estetico, inteso come attrazione per il parallelismo e per le strutture di somiglianza, rivela così una funzione che eccede la sopravvivenza immediata. Esso costituisce una base semiotica per la formazione del sé come processo teleologico, orientato allo sviluppo. In questa prospettiva, il sé biosemiotico non è un punto di partenza arcaico da superare, ma una dimensione strutturale che continua a operare anche nelle forme più articolate della soggettività umana.
Il comportamento estetico appare allora come il primo livello di una semiosi del sé, in cui la vita si organizza secondo criteri di forma, ricorrenza e parallelismo. È su questa base che potranno innestarsi, nei livelli successivi, il ruolo del sentimento e dell’agenzia semiotica autonoma.
Fonte: Yunhee Lee, The role of sentiment, aesthetic behavior, and narrative semiosis in the identification of selfhood from Peirce’s semiotic perspective, Semiotica, 2025.
