Nel suo saggio del 1976 (Il pensiero semiotico di Jakobson), Umberto Eco ripercorre la storia delle riflessioni sui segni mettendo in luce come la semiotica, pur avendo radici antichissime, abbia subito un lungo e ostinato ostracismo da parte della cultura scientifica. La nascita di una scienza che studiasse la produzione, lo scambio e l’interpretazione dei segni non è affatto recente: già la poesia e la filosofia presocratica si erano interessate alla natura dei messaggi divini, e anche la tradizione ippocratica si era occupata dell’interpretazione dei sintomi. I Sofisti, dal canto loro, avevano colto con lucidità il potere del linguaggio.
Eco ricorda che opere come il Cratilo e il Sofista di Platone possono essere considerate i primi tentativi di riflessione strutturale e definitoria sul linguaggio, e sottolinea come Aristotele, con la Poetica e la Retorica, abbia influenzato in modo decisivo le successive analisi sull’intreccio narrativo, sulle sostituzioni metaforiche e sulle regole conversazionali. Anche gli Stoici, con la distinzione tra semàinon, semainòmenon e pragma, hanno dato un contributo cruciale al pensiero semiotico.
Questa lunga tradizione ha attraversato l’età patristica e si è raffinata nei secoli compresi fra i Modisti e Occam. Tuttavia, osserva Eco, nonostante questi precedenti autorevoli, la semiotica non è riuscita a consolidarsi come disciplina autonoma. Anche quando Locke, nel Saggio sull’intelletto umano, incluse la semiotica tra le tre grandi scienze, accanto alla fisica e all’etica, il suo progetto rimase inascoltato. Locke concepiva la semiotica come una disciplina «non inferiore alla logica», incaricata di studiare la natura dei segni «che la mente inferisce per capire le cose o per trasmetterne ad altri la conoscenza».
Eco segnala come la filosofia moderna, da Hobbes a Hume, da Berkeley a Leibniz, nonostante le ricchezze teoriche implicite nei loro sistemi, non abbia saputo far emergere una consapevolezza semiotica pienamente sviluppata. Perfino La scienza nuova di Vico – che Eco definisce un’imponente archeologia dei linguaggi umani – è stata a lungo ignorata al di fuori dell’Italia.
Il risultato di questo processo storico è che la semiotica, anziché diventare una scienza istituzionalizzata, è rimasta a lungo ai margini. Né la Semiotik di Jean Henri Lambert, né il capitolo intitolato “Semiotik” nella Wissenschaftslehre di Bolzano del 1837, hanno ricevuto l’attenzione che meritavano. Lo stesso saggio di Husserl del 1890, Zur Logik der Zeichen (Semiotik), fu pubblicato soltanto nel 1970.
Una sorte accademica ancora peggiore toccò a Charles Sanders Peirce, gran parte della cui opera è rimasta nell’ombra fino a quarant’anni fa. Anche dopo la sua riscoperta, Peirce è stato letto più come metafisico o logico che come padre della semiotica. Eppure, sostiene Eco, è solo assumendo una prospettiva dichiaratamente semiotica che il pensiero peirciano può essere davvero compreso.
Nel Novecento, solo quattro autori hanno tentato una sistematizzazione teorica della semiotica: Saussure, Morris, Hjelmslev e Buyssens. Tuttavia, tutti e quattro sono stati generalmente classificati come linguisti o filosofi. Le proposte di Charles Morris, ad esempio, sono state accolte solo parzialmente: se ne è valorizzata la distinzione tra sintattica, semantica e pragmatica, ma si è trascurata la sua classificazione dei segni. L’eredità morrisiana, filtrata attraverso il Tractatus di Wittgenstein, è stata infine ricondotta a Frege e alla semantica estensionale, perdendo il suo potenziale semiotico originario.
Anche Wittgenstein, con le Ricerche filosofiche, ha offerto spunti cruciali sull’iconismo e sui segni ostensivi, ma – osserva Eco – questi spunti non sono stati confrontati né con la linguistica strutturale né con le ricerche sui linguaggi non verbali. Nonostante la retorica saussuriana sul linguaggio come parte di un sistema più vasto, per anni la linguistica strutturale si è occupata solo del linguaggio verbale, tributando un omaggio formale alla semiologia senza estenderne realmente il metodo.
Solo Hjelmslev, secondo Eco, avrebbe potuto offrire una vera teoria generale dei segni, ma la sua proposta era troppo astratta, i suoi esempi troppo limitati e la terminologia glossematica troppo difficile da penetrare.
In questo scenario, afferma Eco, la nascita della semiotica come disciplina è dipesa da un evento decisivo: un “terremoto metodologico”, una “disseminazione interdisciplinare”, una trasformazione della curiosità scientifica che ha portato alla formazione di una cultura “fondamentalmente semio-orientata”. E conclude che oggi, finalmente, la semiotica è una realtà accademica, presente in molte università, sostenuta da riviste, simposi, associazioni internazionali. Ma perché questa rivoluzione sia avvenuta solo in tempi recenti, è necessario riconoscere – accanto alle cause storiche e antropologiche – il ruolo di alcune scuole e figure individuali: fra queste, Roman Jakobson emerge come il principale catalizzatore.
Umberto Eco, Il pensiero semiotico di Jakobson, 1976