Umberto Eco chiarisce fin dalle prime pagine che Kant e l’ornitorinco non è un aggiornamento del Trattato di semiotica generale. Non si tratta, infatti, di un’opera sistematica, ma di una serie di esplorazioni teoriche, nate da un senso di «indecisione» e da «numerose perplessità». Lo dice esplicitamente: «Scritti dunque all’insegna dell’indecisione e di numerose perplessità, questi saggi sono nati dal sentimento di non aver onorato alcune cambiali firmate quando avevo pubblicato il Trattato di semiotica generale nel 1975».
La decisione di non riscrivere un nuovo Trattato si fonda su due motivi principali. Il primo riguarda la trasformazione del panorama teorico. Negli anni Settanta, sostiene Eco, si poteva ancora «tentare una summa» delle varie ricerche semiotiche. Oggi invece ci si trova di fronte a «una galassia in espansione, non più a un sistema planetario di cui si possano fornire le equazioni fondamentali». La semiosi è diventata un oggetto di studio trasversale a molte discipline, anche a quelle che «non pensavano, o non sapevano di, o addirittura non volevano fare semiotica». In questo contesto, ogni nuova sistemazione apparirebbe «precipitosa», ed è preferibile una strategia teorica «ecumenica», capace di accogliere anche le istanze non ortodosse.
Il secondo motivo è legato alla posizione teorica assunta nel Trattato, dove Eco partiva dal problema dell’Oggetto Dinamico come terminus ad quem della semiosi. Tuttavia, nella seconda parte del libro, presupponeva (senza esplicitarlo pienamente) un’altra domanda: che cosa ci spinge a parlare, a emettere segni? In quel caso, l’Oggetto Dinamico si presentava come terminus a quo. Questa inversione di prospettiva – dal punto di arrivo al punto di partenza – ha orientato le ricerche successive dell’autore, portandolo ad approfondire la questione degli interpretanti e i processi culturali di sedimentazione del significato.
Ma proprio indagando i «limiti dell’interpretazione», Eco si accorge che il problema non è solo culturale o testuale: quei limiti potrebbero essere iscritti più in profondità, in ciò che «pone dei limiti alla nostra libertà di parola». Da qui nasce il bisogno di tornare all’Essere.
Eco descrive questa nuova riflessione come un passaggio dalla sistematicità teorica alla pratica del dubbio e dell’autocritica. La sua è una «decisione prudenziale» che lo porta «dall’architettura dei giardini al giardinaggio», rinunciando a disegnare Versailles per dissodare «alcune aiuole appena connesse da sentieri in terra battuta». È un gesto metodologico consapevole, segnato dalla volontà di correggere se stesso, «senza peraltro rinnegarsi in toto», perché «le idee si cambiano sempre a chiazza di leopardo, mai globalmente e da un giorno all’altro».
Il nucleo teorico che attraversa questi saggi si colloca nel quadro di una semantica cognitiva. Non si tratta né di una semantica vero-funzionale né di una struttural-lessicale, anche se entrambe vengono rielaborate. Eco cerca infatti di costruire una teoria del contenuto che «fonda semantica e pragmatica» su basi contrattuali. La nozione di realismo contrattuale, che emerge come ipotesi di lavoro, intende «contemperare una visione eminentemente “culturale” dei processi semiosici con il fatto che, quale che sia il peso dei nostri sistemi culturali, c’è qualcosa nel continuum dell’esperienza che pone dei limiti alle nostre interpretazioni».
Riferimento bibliografico: Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997.