Claudio Paolucci analizza il rapporto tra testi e pratiche ponendo una distinzione decisiva che coinvolge la natura stessa dell’enunciato. Questo nodo teorico, che ha animato molte controversie recenti in ambito semiotico, viene inquadrato attraverso un primo spartiacque: da un lato l’enunciato-testuale, dall’altro l’enunciato-pratico. L’autore propone di raggruppare entrambi sotto la categoria degli “enunciati”, ma chiarisce immediatamente che tale inclusione non deve oscurarne la fondamentale differenza strutturale e temporale.
Il testo è definito come un enunciato “già enunciato”, ovvero un effetto di un atto enunciativo concluso. In contrapposizione, la pratica rappresenta un’enunciazione in atto, un enunciato che si costruisce nel momento stesso in cui viene realizzato o analizzato. Non è un caso, osserva Paolucci, che la parola “testo” derivi dal passato di tessere, mentre “pratica” indichi qualcosa che si fa al presente, “nel mentre lo si fa”.
Su questa base, l’autore formula una prima distinzione euristica:
i) un testo è l’effetto di un’enunciazione;
ii) una pratica è un’enunciazione in atto.
Questa distinzione, che non comporta alcun giudizio di valore, consente di differenziare oggetti che la cultura contemporanea tende a omogeneizzare sotto grandi categorie metaforiche (come “testo”) per salvaguardare una “pertinenza disciplinare” autosanzionata ma mai realmente legittimata.
Dal punto di vista semiotico, entrambi – testi e pratiche – dipendono da enunciazioni presupposte. Tuttavia, nei testi tali enunciazioni sono compiute e chiuse, mentre nelle pratiche sono ancora in divenire. Paolucci scrive che i testi si configurano come effetto di un débrayage, mentre le pratiche sono “strutture semiotiche in presa diretta”, in cui il soggetto dell’enunciazione è ancora coinvolto assieme ai suoi delegati.
Una seconda distinzione chiave riguarda la struttura temporale. I testi hanno un inizio, uno svolgimento e una fine. Le pratiche, invece, nascono “dal mezzo”, sono strutture che si organizzano nel farsi. Il loro inizio e la loro fine non sono mai fissati una volta per tutte, ma possono essere ridefiniti e differiti. In quanto effetto di un’enunciazione chiusa, il testo è “chiuso” – anche quando si tratta di un’“opera aperta” nel senso di Eco. Le pratiche, invece, sono costitutivamente aperte, pur potendo essere ampiamente stereotipate e grammaticalizzate.
Un ulteriore tratto distintivo riguarda la coesione: mentre il testo presenta una coesione interna necessaria, la pratica non ne possiede affatto. In quanto enunciazione in atto, è aperta a sviluppi eterogenei e a variazioni impreviste, proprio perché è “in flagranza”.
L’autore insiste: le pratiche non sono più ricche o più interessanti dei testi. Anzi, molto spesso risultano più banali e fortemente stereotipiche. Ciò che conta è la differenza strutturale, non la valutazione assiologica.
Secondo Paolucci, questa distinzione era già in nuce nella definizione di testo fornita da Jean-Marie Floch, che gli attribuiva tre proprietà: coerenza, chiusura, coesione. Le pratiche, e con esse le culture, non possiedono questi tratti in modo strutturale. Esse, come le lingue, sono aperte alla contraddizione e all’eterogeneità.
Infine, Paolucci preannuncia una critica a un certo uso generalizzante del concetto di “testo” in semiotica: l’idea che ogni oggetto semiotico – pratiche, culture, linguaggi – possa essere trattato come un testo, sotto l’etichetta onnicomprensiva di “semiotica del testo”, costituisce per l’autore un nodo teorico problematico da ripercorrere e discutere. La posta in gioco non è soltanto terminologica, ma riguarda la possibilità stessa di pensare una logica delle culture che distingua testi, pratiche e culture come oggetti teorici diversi, in linea con quanto già proponeva Eco nel Trattato di semiotica generale.
Riferimento bibliografico: Claudio Paolucci, Strutturalismo e interpretazione. Ambizioni per una semiotica “minore”, Bompiani.