Stefano Traini introduce una prospettiva teorica che amplia il dialogo tra semiotica e scienze cognitive, confrontandosi in particolare con le ricerche di Daniel Stern sullo sviluppo del Sé e sulla percezione neonatale. In questo modo, la riflessione sulla sensorialità abbandona il solo campo teorico per confrontarsi con i dati sperimentali.
Secondo Stern, esistono forme preverbali di senso del Sé: il Sé emergente, il Sé nucleare, il Sé soggettivo e infine il Sé verbale. Il senso di Sé emergente — che nasce nelle primissime settimane di vita — riguarda la percezione di processi organizzativi in formazione. È la sperimentazione del modo in cui l’esperienza stessa emerge, più che dell’esperienza già organizzata. Traini evidenzia come questa visione implichi che, ancor prima del linguaggio e dell’autoriflessione, il bambino sviluppi la capacità di collegare esperienze sensoriali isolate, dando luogo a una forma elementare ma strutturata di significazione.
Esperimenti citati da Stern — ad esempio il test sui neonati bendati a cui vengono offerti diversi tipi di succhiotti e che successivamente riconoscono visivamente quello che avevano succhiato — sembrano confermare l’ipotesi di una percezione amodale, ovvero della capacità di trasferire informazioni da una modalità sensoriale a un’altra. A questo si aggiungono ulteriori esperimenti che rivelano una precoce capacità di accoppiamento transmodale audio-visivo, come la tendenza a preferire volti che emettono suoni sincronizzati con il movimento delle labbra.
Questi dati suggeriscono che la percezione infantile si fonda su qualità astratte, come ritmo, intensità, forma, e che l’organizzazione sensoriale originaria non è settoriale ma globale. In questa cornice, la percezione non si limita a raccogliere stimoli, ma costruisce configurazioni affettive e dinamiche, come mostrano i concetti di affetti vitali elaborati da Stern sulla scorta di Heinz Werner. Si tratta di qualità emotive come “gonfiare”, “trascorrere”, “crescendo”, che non appartengono alle emozioni discrete, ma alla dimensione cinetico-dinamica dell’esperienza sensibile.
Traini segnala che anche il linguaggio, in quanto configurazione acustico-visiva, sembra radicato in questa struttura amodale originaria. Per questo motivo, esperienze apparentemente diverse possono venire connesse sulla base di profili di attivazione affettiva comuni. Un esempio è la relazione tra la voce rassicurante della madre e i colpetti ritmati sulla schiena del neonato: due stimoli provenienti da canali differenti, ma coordinati dalla medesima qualità ritmica e intensiva.
Tutto questo conduce a una riflessione più ampia: se la sensorialità si organizza già in profondità nei primissimi momenti della vita, allora la semiotica potrebbe — e forse dovrebbe — riconoscere in questi processi il livello generativo primario del senso. Traini propone così di pensare un vero e proprio Percorso Generativo dei Sensi, come prosecuzione delle riflessioni greimasiane sull’estesia. La stratificazione figurale-figurativa-iconica della semiotica visiva — già tematizzata da Gianfranco Marrone — trova in queste ricerche uno spessore ulteriore.
Alla luce di ciò, si pone la questione del rapporto tra semiotica e neuroscienze. Se da un lato si avverte l’urgenza di tenere aperta la riflessione culturale e simbolica, dall’altro è sempre più difficile evitare il confronto con modelli sperimentali e dati empirici. Stefano Traini si chiede se abbia ancora senso parlare di propriocettività o tensività forica in un quadro puramente fenomenologico, senza il supporto delle scienze cognitive. Eppure — conclude — è proprio il rischio di un mondo “iper-naturalizzato” a motivare la necessità di resistere, rilanciando una semiotica che sappia connettere il sensibile e il culturale, la percezione e la significazione.
Fonte: Stefano Traini, “No, We Kan’t. Percezione, linguaggio e realtà in prospettiva semiotica”, in occasione del Convegno “Percezione, cognizione e semiotica”, Bologna, 2017.