Nella sua accezione classica, la singolarità designa ciò che distingue un’entità da ogni altra. Nelle scienze del vivente essa è frutto di un processo evolutivo di differenziazione, una strategia che permette a un organismo di rendersi identificabile e riconoscibile. In semiotica, la singolarità è stata letta attraverso il prisma dell’enunciazione: ogni enunciato è singolare perché attualizza una possibilità discorsiva tra molte altre.
Claudio Paolucci ha mostrato come l’enunciazione non emerga mai isolata, ma sia sempre il risultato di un sistema di virtualità conflittuali, realizzando un’attualizzazione negativa: affermare significa allo stesso tempo negare gli altri enunciati possibili. Tuttavia, questa comprensione resta ancorata a un paradigma logocentrico, che vede il segno e dunque la singolarità come prodotto di un soggetto umano, incarnato e intenzionale.
La diffusione delle intelligenze artificiali generative, capaci non solo di produrre enunciati ma anche strategie adattative di enunciazione, mette in discussione questa configurazione. L’enunciazione diventa così luogo di confronto tra forme di vita semiotiche, in cui il criterio di umanità non è più sufficiente per definire l’attore del senso.
Si rende necessaria una riconfigurazione radicale del concetto di singolarità: non più attributo essenziale del soggetto, ma scena performativa in cui entità organiche e inorganiche disputano la possibilità di apparire, di emozionare, di agire semioticamente in un mondo comune. In questo senso, le riflessioni della semiotica del spectacle vivant, come quelle di André Helbo, diventano decisive: la singolarità non si manifesta nella freddezza di un testo oggettivo, ma in una dinamica situata, incarnata e relazionale, dove la corporeità non è supporto ma vettore primario del senso.
Oggi, con l’avvento delle tecnologie generative, emergono nuove scene enunciative non umane: avatar, deepfakes, voci sintetiche, ologrammi assumono la posizione dell’attore e performano una singolarità. Visibilità, udibilità e performatività diventano tratti di entità non viventi che, pur prive di interiorità, introducono effetti di presenza.
La singolarità si presenta allora come evento relazionale e situato, un’epifania semiotica che nasce dall’interazione tra corpo – anche di pixel o di silicio – e sguardo interpretante. L’IA non simula la singolarità umana: produce una propria scena semiotica, fondata su temporalità, spazialità e memorie differenti. Essa non custodisce un’interiorità, ma la capacità di incidere sul tessuto semiotico comune, generando differenze, pieghe, gesti.
Pensare la singolarità nell’era dell’IA significa dunque elaborare una semiotica interspecifica dello spectacle, che tenga conto della co-presenza del vivente e del non-vivente in una scena ibrida. In questa prospettiva, la singolarità non è più un’essenza, ma la possibilità di interrompere la norma percettiva, producendo differenza là dove ci si aspetterebbe ripetizione.
Riferimento bibliografico: Massimo Leone, L’IA comme « nouvelle espèce ».