Il termine etnosemiotica circola da tempo all’interno del campo semiotico, anche se in modo piuttosto sommesso. Tarcisio Lancioni ne rintraccia le tracce teoriche iniziali in alcune domande poste da Greimas sullo statuto semiotico di una classe specifica di “oggetti”, definiti appunto “etnosemiotici”, cioè prodotti da culture “altre” rispetto alla nostra. Si tratta di interrogativi che toccano direttamente il rapporto fra semiotica e discipline etnografiche, affrontato anche dall’antropologia, con posizioni talvolta molto divergenti.
Lancioni contrappone due riferimenti emblematici. Claude Lévi-Strauss, nella lezione inaugurale del corso di antropologia sociale al Collège de France (1960), definiva la disciplina come occupante “in buona fede” quel campo della semiologia che la linguistica non aveva ancora rivendicato. Menzionando Saussure, Lévi-Strauss affermava che l’antropologia “occupa il campo della semiologia” e che il suo oggetto è “la vita dei segni in seno alla vita sociale”.
Di segno opposto è invece l’approccio di Clifford Geertz, che in The Interpretation of Cultures definiva la cultura come “una rete di significati che l’uomo ha tessuto”, proponendo quindi un modello di analisi non sperimentale ma interpretativa. Geertz affermava: “il concetto di cultura che esporrò […] è essenzialmente un concetto semiotico”, e proseguiva: “la loro analisi non è anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato”.
Secondo Lancioni, entrambe le posizioni pongono una sfida alla semiotica: da un lato, essa deve definire la propria specificità tra linguistica e antropologia; dall’altro, è chiamata a confrontarsi con le “forme simboliche” esplorate dagli antropologi, andando “sul campo” per studiare i modi in cui i segni circolano in una determinata cultura.
Questo confronto avrebbe anche la funzione di testare la validità generale dei modelli semiotici. In particolare, Lancioni si riferisce al cosiddetto Schema Narrativo Canonico della semiotica greimasiana, che in alcuni casi è stato criticato come derivante da pratiche narrative “culturalmente localizzate” e non generalizzabili. Tali critiche, osserva l’autore, restano spesso prive di verifiche concrete. Proprio per questo, sarebbe interessante studiare come tale modello reagisca al confronto con oggetti appartenenti ad altre culture, verificando se da tale confronto possano emergere correzioni o addirittura l’esigenza di abbandonare certi paradigmi.
Lancioni cita anche il lavoro di Maurizio Del Ninno (Etnosemiotica, 2007), che raccoglie saggi in cui semiotica e antropologia si confrontano. Ma sottolinea che tale raccolta, pur ricca, lascia fuori molti altri contributi che dimostrano la rilevanza di questo dialogo: in particolare, “La struttura e la forma” di Lévi-Strauss, che critica la Morfologia della fiaba di Propp da una prospettiva etnologica e suggerisce un ripensamento strutturalista della narrazione. Un saggio, secondo Lancioni, che “costituisce la vera ispirazione del lavoro di Greimas”, ben oltre Propp stesso.
L’ipotesi di fondo, allora, è che l’etnosemiotica possa offrire una via di dialogo tra semiotica e antropologia, sia attraverso la verifica empirica dei modelli, sia mediante l’ampliamento della prospettiva analitica verso oggetti e culture altri. Il pensiero semiotico è chiamato a “relativizzarsi”, senza perdere il proprio rigore formale, per cogliere la varietà delle pratiche di significazione che si sviluppano nel mondo sociale.
Riferimento bibliografico: Tarcisio Lancioni, Etnosemiotica. O dello strabismo semiotico, 2015