Umberto Eco apre la sua riflessione sul senso con una premessa metodologica: non intende offrire una trattazione sistematica, ma delineare percorsi esplorativi. Il tono è ironico e autocritico, ma non per questo meno rigoroso. È lo stesso autore a dichiarare: “scritti all’insegna dell’indecisione e di numerose perplessità”, questi saggi sono nati dall’esigenza di fare i conti con interrogativi lasciati in sospeso fin dai tempi del Trattato di semiotica generale. Tra questi: il riferimento, l’iconismo, la verità, la percezione, e ciò che Eco definiva la “soglia inferiore” della semiotica.
La domanda fondamentale diventa allora: che cosa ci spinge a produrre segni?
Eco recupera la nozione peirceana di Oggetto Dinamico, ovvero ciò che provoca l’emissione di un representamen. Ma mentre il Trattato partiva dal problema del riferimento (terminus ad quem), qui il punto di partenza è ciò che spinge a parlare (terminus a quo). Non basta più interrogarsi su che cosa significhino i segni; bisogna domandarsi perché sentiamo il bisogno di significare.
La semiotica, scrive Eco, deve affrontare il problema del Qualcosa. Non solo: “ogni filosofia del linguaggio si trova di fronte non solo a un terminus ad quem, ma anche a un terminus a quo”. Non basta sapere a cosa ci riferiamo quando parliamo: occorre chiedersi anche che cosa ci fa parlare.
In questo quadro, Eco rilegge l’intera tradizione semiotica, sottolineando come la semiotica strutturale non abbia mai tematizzato l’origine dell’atto linguistico (salvo l’eccezione di Hjelmslev), e come la filosofia analitica si sia accontentata di discutere le condizioni di verità degli enunciati, senza problematizzare il rapporto prelinguistico con le cose.
L’unico che ha posto questo problema in modo esplicito è stato Peirce. L’Oggetto Dinamico è ciò che “ci prende a calci” e ci dice: parla di me. È il primo motore della semiosi, e agisce prima ancora che venga formulata un’ipotesi, prima ancora dell’attenzione selettiva. Eco chiama questa forza indicalità primaria, o attenzionalità primaria: il momento in cui, in un flusso indistinto di stimoli, qualcosa emerge come oggetto d’interesse.
Ma questo “qualcosa” è anche ciò che, nella tradizione filosofica, viene chiamato Essere.
L’impossibilità di definire l’essere
L’essere è un termine basilare, eppure inafferrabile. Come osservava Pascal, non si può definire l’essere senza usare il verbo essere, e dunque senza cadere in un circolo vizioso. In semantica, si direbbe che l’essere è un primitivo, il più primitivo tra tutti.
Eco analizza le difficoltà linguistiche che emergono nel trattare la nozione di essere: il greco to on, il latino ens e esse, il tedesco Sein e Seiende, l’inglese to be e Being, il francese être e étant. Nessuna lingua risolve l’ambiguità, anzi, la riproduce in vari modi. In italiano, ad esempio, usiamo un solo termine per indicare sia l’essere sostantivo che il verbo essere.
La distinzione tra essere, ente e essenza attraversa l’intera storia della metafisica. Ma Eco insiste: il problema dell’essere non è solo ontologico, è anche e soprattutto linguistico. L’essere è ciò che ci permette di parlare, ma non può essere detto senza essere trasformato in un effetto del linguaggio.
L’essere come intensione nulla
Seguendo Peirce, Eco osserva che l’essere ha estensione illimitata e intensione nulla. Si riferisce a tutto, ma non significa nulla in sé. È ciò che accomuna ogni cosa, ma proprio per questo non ha contenuto proprio. Non è un genere, né un concetto, né un oggetto definibile.
Anche Aristotele, pur affermando che “l’essere si dice in molti modi”, finisce per ancorarlo alla sostanza. Ma il vero dramma, osserva Eco, non sta nel fatto che l’essere sia polisemico. Sta nel fatto che esso “si dice”. È il linguaggio che lo dice, e nel momento in cui lo dice, lo trasforma in qualcosa che non è più puro essere, ma ciò di cui si parla.
L’essere, allora, è ciò che si lascia dire solo nella misura in cui si lascia interpretare. E come aveva già riconosciuto Parmenide, “è e può essere pensato”. Ma per essere pensato, deve essere detto, e per essere detto, deve entrare nel linguaggio. Da qui il paradosso: ciò che è più evidente è anche ciò che sfugge a ogni definizione.
L’essere come Qualcosa
Eco affronta la domanda leibniziana: “Perché c’è qualcosa piuttosto che nulla?”
La risposta che propone, in forma ironicamente brutale, è: “Perché sì”. Ma questa risposta, apparentemente tautologica, va presa con la massima serietà. L’essere è la condizione della domanda stessa, e dunque non ha bisogno di un fondamento ulteriore.
Anche se fossimo dentro una simulazione, anche se il mondo fosse pura illusione, anche in quel caso qualcosa ci sarebbe. E questa presenza originaria è ciò che Eco chiama “bagno amniotico” del pensiero.
Le resistenze dell’essere
Nel modello che Eco propone, l’essere non è un fondamento positivo, ma un insieme di resistenze. L’essere non garantisce la verità, ma si oppone alle falsità. È ciò che rifiuta le interpretazioni arbitrarie, ciò che non permette di dire tutto.
Anche se non esiste una Legge assoluta, esistono dei limiti, delle nervature, delle linee di frattura. Il “continuum” hjelmsleviano, ovvero la materia amorfa del contenuto prima della forma, presenta delle “linee di tendenza” che rendono certi tagli più naturali di altri. Come nel caso del bue, che può essere tagliato in modi diversi, ma non può essere cucinato tutto insieme come una pietanza unica.
Così l’essere non si impone, ma resiste. Non fonda il discorso, ma lo frena. E il linguaggio, nella sua funzione ermeneutica, non fa altro che saggiare i limiti di ciò che può dire.
“Il resto è congettura.”
Riferimento bibliografico: Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997.