Nel presentare Kant e l’ornitorinco, Umberto Eco chiarisce subito che questo libro non è una raccolta di articoli né una riedizione del Trattato di semiotica generale, ma un’opera unitaria e nuova. È il risultato di un lavoro ventennale, scritto in parte “per dispetto”, e intende affrontare il problema dell’essere dal punto di vista della semiotica. Pur mantenendo una continuità con il Trattato, Eco annuncia fin da subito che alcuni dei presupposti di quel testo vengono ora rivisti o corretti, alla luce di un confronto più ampio con la filosofia, la logica, le scienze cognitive e le neuroscienze.
L’interesse centrale è rivolto a ciò che accade quando si passa dalla percezione al linguaggio, e in particolare alla soglia in cui comincia a operare un riconoscimento: la soglia inferiore della semiotica. In questione non è solo la significazione in senso stretto, ma il problema più generale della conoscenza, che implica l’identificazione, la categorizzazione, il giudizio. Non si tratta di elaborare una teoria unificata, ma di articolare una serie di ricerche che, come un “apologo a puntate”, possano permettere di “ripercorrere molte vie, a ritroso, fino all’essere”. Ed è proprio l’essere il primo nodo teorico affrontato.
Eco osserva che “non si può dire l’essere”, e tuttavia si parla continuamente dell’essere. Lo si fa nella filosofia, nella poesia, nel linguaggio comune, nella scienza. Si dice “che qualcosa è”, ma anche “che qualcosa è qualcosa”, e in entrambi i casi si adopera il verbo essere come copula o come predicato. Si può allora sostenere, come alcuni filosofi, che il verbo essere sia un “primitivo semantico”, cioè un concetto talmente generale da non poter essere definito in termini più semplici. Ma proprio questa impossibilità di definire l’essere non impedisce di utilizzarlo in enunciati con senso.
La difficoltà di parlare dell’essere ha generato due atteggiamenti storici opposti. Da un lato, un impulso mistico o teologico, che vede nell’essere qualcosa di ineffabile, da contemplare ma non da concettualizzare. Dall’altro, un impulso analitico, che tenta di esaminare le forme linguistiche in cui si parla dell’essere per ridurne la complessità. Eco non accoglie né l’uno né l’altro atteggiamento: non si limita a denunciare l’ineffabilità dell’essere, ma nemmeno crede che basti scomporre il linguaggio per dissolvere il problema.
Per questo, propone un approccio congetturale, che considera l’essere non come un oggetto da definire, ma come ciò che resiste ai nostri tentativi di ridurlo a rappresentazione. L’essere non si lascia dire arbitrariamente: si fa dire, oppone resistenza, costringe il linguaggio a confrontarsi con ciò che lo eccede.
Questo comporta una revisione anche della funzione interpretativa. Eco non nega l’importanza dell’interpretazione — che aveva ampiamente teorizzato nel Trattato — ma ne segnala i limiti: “se tutto è interpretazione”, allora l’interpretazione si svuota. Occorre riconoscere che l’interpretazione si esercita su qualcosa, e che questo qualcosa pone dei vincoli. L’essere è ciò che si manifesta nonostante l’interpretazione, come ciò che non si lascia completamente ridurre.
Eco non cerca una definizione dell’essere, ma propone una posizione metodologica: è legittimo parlare dell’essere quando si riconosce che esso non è dicibile senza residui, e che ogni tentativo di definirlo presuppone già un’operazione di mediazione. Parlare dell’essere significa allora misurarsi con il proprio stesso linguaggio, con i suoi limiti e le sue strategie. Ogni tentativo di dire l’essere comporta il rischio di tradirlo, proprio perché non si lascia dire senza residui.
Riferimento bibliografico: Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997.