L’essere è il fondamento silenzioso di ogni discorso, ma diventa ambivalente non appena si prova a nominarlo. Umberto Eco affronta questa aporia con uno stile che intreccia il rigore filosofico e l’ironia del paradosso: si può parlare dell’essere, ma ogni volta che lo si fa, ciò che si dice è già effetto di linguaggio.
Nonostante l’intuizione aristotelica secondo cui “l’essere si dice in molti modi”, il problema non risiede nella molteplicità dei significati, ma nel fatto stesso che l’essere si dica. La parola stessa, che dovrebbe ancorare il pensiero al reale, si rivela inadeguata: ciò che rende possibile ogni enunciato è anche ciò che sfugge alla definizione.
Eco sottolinea con forza che l’essere non è un genere, né il più generale dei generi: non può essere oggetto di una definizione, perché la definizione stessa è un atto linguistico fondato sull’“essere”. Ogni tentativo di parlare dell’essere si muove così in un circolo: usiamo l’essere per definire ciò che è, ma non possiamo dire nulla di definitivo sull’essere stesso.
Di qui il rischio di trasformare l’essere in un flatus vocis: qualcosa che si dice, ma che non ha un referente stabile. Questo rischio ha attraversato la storia della filosofia, spingendo alcuni pensatori a spostare il problema dell’essere fuori dal linguaggio, in zone di ineffabilità.
È la strategia del neoplatonismo, che colloca l’Uno al di là dell’essere; oppure della teologia scolastica, che identifica Dio con l’ipsum esse, e delega al linguaggio dell’analogia il compito di dire ciò che non può essere detto univocamente. Ma anche qui, nota Eco, l’analogia stessa è già una forma di linguaggio, e quindi l’essere continua a presentarsi come effetto di discorso.
Anche la soluzione di Spinoza – l’identificazione di linguaggio ed essere nell’unità della sostanza – finisce per infrangersi contro la povertà del linguaggio nel trattare l’individuale. L’essere, nella sua presunta identità con l’ordine e la connessione delle idee, resta comunque impronunciabile quando si tratta di nominare un uomo, un oggetto, un evento.
Lo stesso Heidegger, che tenta di distinguere l’ente (Seiende) dall’essere (Sein), cade secondo Eco nella trappola di ipostatizzare un termine che non ha né intensione né estensione. L’angoscia, la morte, il niente diventano metafore della finitezza dell’esserci, ma non aggiungono contenuto al concetto di essere. Se anche il Sein si apre all’esserci, ciò che ne scaturisce è ancora e sempre una comprensione della nostra finitudine, non un fondamento.
A fronte di queste strategie – filosofiche, teologiche, esistenziali – sorge allora la tentazione di affidare il compito di parlare dell’essere alla poesia. I poeti, come i mistici, sembrano avere accesso a un linguaggio capace di dire l’indicibile: attraverso metafore, ossimori, simboli. E tuttavia, anche questa ipotesi viene sottoposta a critica.
Eco osserva che attribuire ai poeti il compito esclusivo di dire l’essere significa presupporre che esista un inconoscibile – ma questa è già una presunzione indebita. Peirce l’aveva escluso in modo netto: non abbiamo alcuna concezione dell’assolutamente inconoscibile, perché ogni affermazione in tal senso implicherebbe una conoscenza, sia pure per via negativa.
Il linguaggio poetico, dunque, non rivela l’essere, ma emula la sua ambiguità. I poeti sfruttano la polisemia del linguaggio per creare nuove interpretazioni, non per svelare verità assolute. La poesia, semmai, provoca, mette in crisi il linguaggio ordinario, stimola l’interrogazione, ma non possiede una via privilegiata all’essere.
A questo punto Eco si confronta con la posizione di Nietzsche, per il quale la verità è “un mobile esercito di metafore”. Il linguaggio costruisce concetti attraverso l’usura delle metafore, dimenticando la loro origine immaginativa. Ne risulta una rappresentazione del mondo che è già irrigidita, normata, sistematizzata. Tuttavia, anche Nietzsche – pur smascherando il linguaggio come sistema di convenzioni – non nega l’esistenza di una realtà che ci costringe a riformulare i nostri schemi. È l’esperienza del limite che ci impone di rivedere le nostre credenze.
Eco individua qui un punto decisivo: le interpretazioni non sono tutte uguali. Anche se l’essere si dice in molti modi, non tutti i modi sono equivalenti. Esistono interpretazioni sbagliate, ingenue, ingiustificate. La pluralità delle prospettive non implica l’arbitrarietà assoluta.
Per questo, scrive, l’essere oppone delle resistenze. Non sono leggi eterne, ma zone d’attrito, punti in cui il linguaggio si inceppa, in cui l’interpretazione si arresta. L’esempio è volutamente semplice: un cacciavite può servire ad aprire un pacco, ma non a pulirsi l’orecchio. L’essere, allora, non si lascia dire a capriccio, perché si oppone all’uso scorretto dei segni. E questa opposizione non è dogmatica, ma funzionale: è la condizione per cui la semiosi resta possibile, cioè significativa.
L’essere – conclude Eco – non è un fondamento stabile, ma una zona di congettura, un campo di forze in cui il linguaggio si muove tra possibilità e limiti. Se ci sono verità, sono sempre provvisorie, ma questo non le rende meno importanti. Al contrario, proprio la consapevolezza della pluralità interpretativa ci obbliga a esercitare un’attenzione critica verso ciò che diciamo, verso come lo diciamo, e verso il mondo su cui il nostro dire insiste.
Riferimento bibliografico: Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997.