L’essere non è definibile. Umberto Eco individua in questa constatazione il centro della grande aporia aristotelica. Sebbene l’essere sia il presupposto di ogni definizione, esso stesso non può essere definito, poiché – per definire qualcosa – è necessario ricorrere a un genere e a una differenza specifica. Ma l’essere non è un genere, neppure il più generale: è la condizione di ogni categorizzazione, non un elemento categorizzabile.
Ogni volta che si cerca di invocarlo per fondare logicamente il discorso, si cade in un circolo: «ricadremmo nel dire, e cioè in quel linguaggio di cui cercheremmo la garanzia». Secondo la citazione di Aubenque richiamata da Eco, l’essere «non aggiunge nulla a ciò a cui lo si attribuisce»: non è un supplemento semantico, ma un vuoto costitutivo, una condizione logica che però non si lascia tematizzare.
Di fronte a questa aporia, si sono tentate nel tempo diverse strategie. Una, di matrice neoplatonica, è lo spostamento dell’essere in una regione ineffabile, quella dell’Uno che precede ogni essere e ogni parola. Ma l’ineffabilità viene espressa attraverso negazioni, metafore, esclusioni – operazioni tutte che restano pur sempre semiotiche: anche la teologia negativa «circoscrive l’indicibile» ricorrendo a tecniche del linguaggio.
Un’altra soluzione classica è quella della teologia scolastica: identificare il fondamento dell’essere con Dio come ipsum esse. Ma anche questa soluzione implica un artificio teorico: si colma il vuoto dell’ontologia con una costruzione che, per quanto teologicamente fondata, non può eludere il fatto che anche parlare di Dio implica elaborare un linguaggio. Non si tratta di un linguaggio ordinario, ma di un linguaggio dell’analogia, cioè di una semiosi regolata da una somiglianza proporzionale.
Tuttavia, osserva Eco, non è corretto dire che l’analogia permetta di parlare dell’essere. È piuttosto l’essere stesso – nella sua paradossale effabilità – a consentire di parlare di Dio per analogia. Anche in questo caso, l’intero impianto resta circolare: è il linguaggio che stabilisce che l’essere è analogo, ma per farlo presuppone che l’analogia sia già legittima.
Eco discute infine una terza via: quella della riassorbenza totale del linguaggio nell’essere, come avviene nel sistema spinoziano. Qui, l’essere e il linguaggio coincidono nell’ordine e nella connessione delle idee e delle cose. La sostanza si dice da sé, non c’è scarto tra pensiero e realtà. Ma anche in questo caso, il linguaggio si rivela fragile: si regge finché parla della sostanza in astratto, ma mostra tutta la sua debolezza quando deve parlare degli enti concreti, mondani. Spinoza stesso lo riconosce: la formazione delle immagini universali dipende dalle “disposizioni del proprio corpo”, rivelando un legame ineludibile tra linguaggio e condizione fisica dell’enunciatore.
Neppure nella più perfetta architettura filosofica il linguaggio riesce a fondarsi completamente sull’essere. Il tarlo della semiosi resta attivo: insinua scarti, incertezze, oscillazioni. L’essere, che vorremmo stabile e fondativo, si mostra invece come orizzonte vuoto, mobile e semanticamente povero. Non è un punto di arrivo, né di partenza: è un passaggio inevitabile che sfugge alla presa della definizione e della nominazione.
Riferimento bibliografico: Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997.
