Nel pensiero neoplatonico dello pseudo-Dionigi si manifesta una strategia discorsiva che ha segnato profondamente la cultura occidentale: parlare dell’essere per via negativa, evocandone l’ineffabilità attraverso nomi oscuri, ossimorici, poetici. L’Uno viene descritto come ciò che non è: né corpo, né luce, né numero, né tempo. Per questo può essere nominato solo con immagini paradossali, come “caligine luminosissima”, oppure con metafore animali – Folgore, Pantera – che non svelano ma alludono. È questo il modo “simbolico”, ampiamente metaforico, che ancora influenzerà il concetto di analogia in Tommaso e oltre.
Da qui deriva un’idea destinata a lunga fortuna: se l’essere non può essere detto in modo diretto, allora solo i poeti – maestri della metafora e dell’ossimoro – possono parlarne. L’interrogazione sull’essere viene così delegata al linguaggio dell’ambiguità, della molteplicità semantica, della suggestione lirica. Una concezione che attrae non solo i mistici, ma anche certi scienziati moderni: quelli che di giorno coltivano il rigore del metodo e di notte organizzano sedute spiritiche, oscillando tra razionalismo e fascinazione per l’invisibile.
Ma questa attribuzione del dire poetico all’essere si innesta in un processo storico più ampio. Se da Platone a Baumgarten l’arte è stata spesso svalutata come forma di conoscenza inferiore, centrata sul particolare e non sull’universale, sarà proprio la crisi della razionalità scientifica moderna a rovesciare la gerarchia: quando la filosofia si arresta e la scienza riconosce i suoi limiti, i poeti sembrano restare gli unici a dire qualcosa che tocchi l’essere. Non perché la poesia abbia vinto, ma perché la filosofia si è arresa.
Eco invita però a sospettare di questa attribuzione. Perché per affermare che i poeti parlano dell’inconoscibile, occorrerebbe assumere che un inconoscibile esista. Ma proprio questa idea è messa in discussione da Peirce nelle sue “quattro incapacità”: non possiamo pensare senza segni, non abbiamo accesso all’intuizione pura, e soprattutto non abbiamo alcuna concezione dell’assolutamente inconoscibile. Per dire che qualcosa è inconoscibile, infatti, bisogna aver tentato di conoscerlo attraverso segni, inferenze, ipotesi. In caso contrario, è solo una finzione retorica.
Se si esclude l’inconoscibile come presupposto, allora anche l’idea che i poeti ne siano gli interpreti privilegiati vacilla. Non è che i poeti dicano l’essere; piuttosto, tentano di emularne la consistenza vischiosa, indeterminata, informe. Usano il linguaggio nella sua ambiguità per restituire una sfida ermeneutica: ci costringono a reinterpretare ciò che credevamo già noto. Non producono verità ontologiche, ma sovrappiù di interpretazione. La poesia non svela, ma disturba e stimola l’interrogazione. È l’arte che “ricostituisce l’informe originario”, non per affermare, ma per sollecitare.
Da qui, il confronto con Heidegger. In Holzwege, due estetiche si fronteggiano: nella prima, l’opera d’arte (come gli zoccoli dipinti da van Gogh) rivela la verità dell’essere, lasciando che l’ente appaia nel suo non-nascondimento. Ma nella seconda, più radicale, l’opera non trasmette una verità già data: essa rompe le rappresentazioni consolidate e apre all’interpretazione. È una provocazione, un invito a rifare i conti con ciò che appare. In questo senso, l’estetica più feconda non è quella della rivelazione, ma quella dell’interrogazione permanente.
La poesia, allora, non è un’alternativa alla filosofia, ma un suo correttivo. Non dice l’essere, ma ci aiuta a continuare a porre la domanda. È una pratica che dissolve l’apparenza di certezza, costringendoci a confrontarci con l’irriducibile individuale, dove si sgretola l’impalcatura degli universali. In questo lavoro incessante di destrutturazione e riformulazione, il discorso dei poeti non si distingue per essenza dal parlare filosofico o scientifico: ne è piuttosto un momento critico, un’esortazione a non smettere di cercare.
Per questo, ogni volta che diciamo a qualcosa “sei bello”, il discorso non si arresta: anzi, è proprio lì che si riattiva, reclamando interpretazione. L’essere, nel suo apparire poetico, non è un oggetto rivelato, ma un campo di tensioni, uno spazio di confronto ermeneutico. E i poeti sono coloro che ci obbligano a tenere aperta questa tensione.
Riferimento bibliografico: Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997.
