Nel confrontarsi con l’eredità del paradigma testuale, Claudio Paolucci sottopone a critica radicale l’idea secondo cui qualunque realtà culturale possa essere trattata come un testo. Questa estensione indiscriminata, osserva, ha condotto la semiotica cosiddetta “maggiore” a omogeneizzare oggetti radicalmente eterogenei, come romanzi, zuppe al pesto, città, strategie di mercato, pubblicità e miti, annullandone le differenze culturali sotto la copertura di un’unica categoria.
In questo scenario, la cultura viene spesso pensata come un insieme infinito di testi. Ma per Paolucci, tale approccio trascura un dato fondamentale: non tutto ciò che è significativo in una cultura è “letto” come un testo dalla comunità interpretante. Una semiotica che voglia dirsi interpretativa e strutturalista deve anzitutto saper distinguere i diversi statuti enciclopedici con cui gli oggetti circolano nella semiosfera.
Il problema, spiega l’autore, non sta nel fatto che si scelga di analizzare la città o il sigaro come testi, ma nel fatto che questa scelta viene spesso data per scontata, senza chiedersi quali siano le condizioni culturali e gli abiti interpretativi che rendono legittima tale lettura. Il rischio è quello di essere “prigionieri di un’immagine” – come scrive Wittgenstein – che si impone inconsapevolmente attraverso il linguaggio stesso. È questa immagine, quella della cultura come testo, che la semiotica deve smascherare e problematizzare.
Secondo Paolucci, la vera posta in gioco per una semiotica interpretativa è comprendere le regole di produzione di senso che articolano le formazioni discorsive in una data cultura. Questo significa indagare gli abiti interpretativi, gli stereotipi, le strutture cognitive e sociali che determinano come gli oggetti vengano percepiti, segmentati e qualificati.
Il saggio recupera qui la lezione di Il malocchio della sociologia di Paolo Fabbri (1973), dove si proponeva una semiotica capace di spogliare l’emittente e il ricevente della loro realtà empirica per concentrarsi sul messaggio–testo come depositario dell’informazione culturale. Tuttavia, Paolucci nota che nella tradizione generativa, questa intuizione è rimasta incompiuta: il punto i) (analisi dei contenuti testuali) ha fagocitato il punto ii) (regole di produzione del senso), che invece dovrebbe rappresentare l’oggetto centrale di una semiotica delle culture.
Nel confronto con la sociologia e l’antropologia del linguaggio, che lavorano con soggetti e contesti reali, la semiotica adotta invece una riduzione fenomenologica che mette tra parentesi l’empiria per focalizzarsi su sistemi di differenze posizionali. Ma – osserva Paolucci – questa riduzione non deve diventare una chiusura disciplinare: al contrario, il compito della semiotica è comprendere come una cultura produce le proprie differenze, non semplicemente leggere ogni fenomeno come se fosse un testo.
A questo scopo, Paolucci richiama Peirce e Lotman. Entrambi indicano che il problema centrale non è il riconoscimento del già noto, ma la gestione dell’alterità. Ogni sistema culturale tende a interpretare l’altro a partire dai propri abiti, traducendo il nuovo nel linguaggio del familiare. L’esempio di Lotman su Puškin è eloquente: la cultura costruisce un’immagine dell’autore che, pur rendendolo comprensibile, ne riduce la portata innovativa.
Paolucci estende questa riflessione al concetto stesso di stereotipo: non si può sfuggire agli abiti interpretativiattraverso un metodo o una massima. Il semiologo, come il pittore o lo scrittore, si confronta sempre con una “pagina bianca troppo piena”, carica di già-detto, cliché e sintassi procedurali. Non esiste un’analisi testuale pura: ogni atto interpretativo è radicato in una rete enciclopedica che orienta e condiziona la produzione del senso.
Da qui la necessità di pensare una semiotica non come scienza dei testi, ma come scienza delle logiche enciclopediche che strutturano la semiosfera. La cultura non è un insieme di testi, ma una rete di abiti e regole che producono significato e che devono essere analizzate nella loro storicità e specificità.
In questa prospettiva, l’interpretazione non è mai un atto neutro, ma una pratica culturale situata, che si muove tra la sedimentazione degli stereotipi e la loro possibile sospensione. La semiotica non deve quindi sognare una pagina bianca da riempire, ma imparare a leggere ciò che la pagina già contiene prima ancora di essere scritta.
Riferimento bibliografico: Claudio Paolucci, Strutturalismo e interpretazione. Ambizioni per una semiotica “minore”, Milano, Bompiani.