Come sottolinea Umberto Eco, la prospettiva di Roman Jakobson si fonda sull’idea che la semiotica non può limitarsi a studiare la struttura dei segni: deve includere necessariamente una riflessione sul significato e sulla costruzione del senso. Jakobson rifiuta con decisione l’idea che la linguistica possa prescindere dal problema del significato, restando confinata alla pura descrizione formale.
Già nei lavori giovanili, Jakobson distingue fra il significato o senso di un segno e i suoi puri denotata. Nel 1934, egli scrive che “la fenomenologia moderna smaschera sistematicamente le finzioni linguistiche e mostra con lucidità la differenza sostanziale che corre tra il segno e l’oggetto significato, tra il significato di una parola e il contenuto veicolato da questo significato”. Questa distinzione, nota Eco, implica che ogni processo di significazione rimanda a un livello ulteriore di interpretazione.
Da qui deriva l’assimilazione della nozione peirciana di interpretante, ripresa da Jakobson nel 1952. Interpretare un elemento semiotico significa tradurlo in un altro elemento del medesimo sistema o di un sistema diverso: l’atto interpretativo è, in sé, una traduzione. Ogni traduzione, però, non è mai un semplice equivalente: il nuovo segno arricchisce l’originario, producendo ciò che Peirce chiamava semiosi illimitata.
Nel 1959 Jakobson elabora la celebre classificazione dei tre tipi di traduzione:
– la traduzione intralinguistica, o riformulazione all’interno della stessa lingua;
– la traduzione interlinguistica, o trasposizione da una lingua all’altra;
– la trasmutazione intersemiotica, ossia la traduzione da un sistema di segni a un altro, come dal verbale al visivo o al musicale.
Per Eco, questa distinzione mostra che il significato non è mai un’entità fissa, ma il risultato di un processo dinamico di interpretazioni successive. Jakobson, inoltre, concepisce la creatività del linguaggio proprio in questa capacità di generare nuove relazioni tra segni. Tradurre equivale a interpretare, e interpretare significa creare.
In questo contesto, l’analisi strutturale del significato deve procedere come ricerca delle invarianti semantiche, analogamente a quanto accade per le invarianti fonologiche. Jakobson propone un approccio strutturale alla semantica fondato sull’individuazione di opposizioni e ricorrenze: il senso si articola in tratti distintivi, proprio come il suono.
Eco ricorda inoltre l’analisi jakobsoniana del termine bachelor, che diventa esemplare di questa prospettiva. Jakobson individua l’invariante semantica che accomuna i diversi significati della parola — “qualcuno la cui carriera non si è ancora compiuta” — anticipando le successive teorie strutturali del lessico. Anche lo studio dei testi letterari, come il saggio del 1937 su Puškin, applica lo stesso metodo: categorie come vita e morte, quiete e movimento, sostanza vivente e sostanza inerte vengono analizzate come relazioni semantiche profonde, precorrendo le future strutture attanziali e le organizzazioni mitiche di Lévi-Strauss o Greimas.
Per Jakobson, dunque, ogni semantica è intensionale: studia le modalità culturali con cui si organizza l’universo del senso, non la mera corrispondenza tra parole e cose. Il significato non si trova negli oggetti, ma nella rete di relazioni che li collega, nelle trasformazioni che la cultura e il linguaggio impongono ai segni.
Eco vede in questa impostazione uno dei punti di incontro più fecondi tra Jakobson e Peirce: entrambi concepiscono la significazione come processo interpretativo continuo, e l’universo semantico come sistema aperto di relazioni che si generano senza fine.
Fonte: Umberto Eco, Il pensiero semiotico di Jakobson, 1976