Nel suo approfondito studio sulla metasemiotica, Francesco Galofaro esplora i rapporti tra la glossematica hjelmsleviana e le teorie logiche di Carnap e Tarski, mostrando convergenze formali, divergenze epistemologiche e tensioni teoriche irrisolte.
Galofaro parte dalla constatazione che Hjelmslev, nel definire la metasemiotica come semiotica scientifica, si ispira esplicitamente alla distinzione tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio di Tarski. L’autore danese attribuisce alla linguistica lo statuto di metasemiotica, ossia di una semiotica che ha come contenuto un’altra semiotica. Tuttavia, precisa Galofaro, ciò che per Hjelmslev è metasemiotica, per i logici è una costruzione linguistica formalizzata che risponde a criteri di rigore propri del calcolo.
Hjelmslev introduce dunque una distinzione che si discosta da quella logica: la semiotica-oggetto non è semplicemente il piano del contenuto, bensì l’insieme dei definienda che una semiotica, in quanto metalinguaggio, prende in carico. Da qui nasce una concezione non gerarchica, ma logica, del rapporto tra semiotiche: metasemiotica e semiotica-oggetto possono coincidere nella loro struttura, a patto che siano analizzabili secondo il principio empirico.
La vera frattura, osserva Galofaro, emerge quando si confrontano i sistemi simbolici della logica con le semiotiche hjelmsleviane. Mentre la logica tende a costruire sistemi monoplanari (basati solo sulla forma dell’espressione), la semiotica postula la necessaria compresenza di due forme: espressione e contenuto. In questo, Hjelmslev rifiuta la distinzione tradizionale tra forma e materia, proponendo una dialettica tra forme, che rimette la linguistica al centro del progetto epistemologico.
Galofaro sottolinea che il problema non è tanto la possibilità di costruire un sistema interpretabile, quanto il fatto che la semiotica, anche nel suo statuto metasemiotico, presuppone la possibilità di descrivere ogni fenomeno con due piani. Per questo motivo, Hjelmslev definisce i sistemi simbolici della logica come casi speciali della semiotica: sistemi interpretabili, ma non sempre interpretati. Non è l’interpretazione a definire la presenza del segno, quanto la possibilità stessa di essere interpretati.
La distinzione fra sistemi interpretabili e sistemi interpretati è quindi cruciale. Un sistema logico come la formula A → B può avere molteplici interpretazioni (ad esempio: “Se piove prendo l’ombrello”; “Se voto Forza Italia mia madre è sempre incinta”), ma in sé non è un segno interpretato: è solo una struttura, interpretabile ma priva di contenuto attuale. Questo spiega l’atteggiamento nominalista di Hjelmslev: la forma precede la materia, e ciò che è materia da un punto di vista può essere forma da un altro.
Questa concezione, però, porta a una ambiguità teorica che Galofaro non manca di evidenziare: se i due piani sono interdefiniti e l’esistenza della materia dipende dalle operazioni dell’analista, come si stabilisce se un sistema sia una semiotica o no? Per Hjelmslev, è sufficiente verificare se l’analisi impone o meno il ricorso a due piani. Se si può lavorare con un solo piano, per economia, si ha un sistema non semiotico. Ma Galofaro osserva che questa soluzione, pur elegante, rischia di occultare il problema epistemologico della definizione dei fondamenti.
Anche quando Hjelmslev propone una formalizzazione rigorosa nel Résumé, il tentativo appare incompiuto: mancano teoremi, calcoli, derivazioni. La glossematica, nota Galofaro, ambisce a una descrizione esauriente e predittiva dei sistemi linguistici, ma si scontra con limiti epistemologici difficilmente superabili: tra questi, l’impossibilità di fondare la teoria della semiotica in termini puramente semiotici, senza incorrere in paradossi autoriferiti.
Certamente. Ecco una nuova versione della frase, più rigorosamente aderente al testo di Galofaro:
Infine, Galofaro mette in luce i rapporti tra la proposta di Hjelmslev e alcune tradizioni filosofiche e logico-matematiche novecentesche: in particolare, evidenzia il rilievo esplicito attribuito a Kant, ma anche i riferimenti, diretti e indiretti, a figure come Frege, Russell, Hilbert, Carnap e Tarski, con cui Hjelmslev condivide l’ambizione di una fondazione epistemologica delle scienze — pur distanziandosene su punti teorici decisivi, come il ruolo del linguaggio naturale e la struttura del segno.
Infine, Galofaro mette in luce i rapporti tra la proposta di Hjelmslev e alcune tradizioni filosofiche e logico-matematiche novecentesche: in particolare, evidenzia il rilievo esplicito attribuito a Kant, ma anche i riferimenti, diretti e indiretti, a figure come Frege, Russell, Hilbert, Carnap e Tarski, con cui Hjelmslev condivide l’ambizione di una fondazione epistemologica delle scienze — pur distanziandosene su punti teorici decisivi, come il ruolo del linguaggio naturale e la struttura del segno.
Mentre Carnap separa i metalinguaggi per la sintassi e per la semantica, Hjelmslev propone un unico metalinguaggio per espressione e contenuto, affermando così l’originalità della sua impostazione linguistica.
Questa originalità, però, non evita l’obiezione di fondo: chi fonda il fondamento?. La metasemiotica, se vuole assolvere a una funzione epistemologica generale, non può eludere il problema dei propri primitivi, postulati e limiti. Da qui l’urgenza, riconosciuta da Galofaro, di una epistemologia della metasemiotica, che vada oltre il modello hjelmsleviano, senza però rinnegarne la forza teorica.
Riferimento bibliografico: Francesco Galofaro, METASEMIOTICHE. Una ricognizione epistemologica