La distinzione tra analogico e digitale ha a lungo orientato il pensiero semiotico e linguistico, sulla scorta di una teoria dell’informazione che contrapponeva continuità e discrezione, motivazione e arbitrarietà, corpo e codice. Paolo Fabbri, tuttavia, invita a mettere radicalmente in discussione questa bipartizione, ritenendola non solo insufficiente, ma anche fuorviante rispetto alla complessità effettiva dei fenomeni significanti.
Nel linguaggio, afferma Fabbri, l’elemento digitale — vale a dire la sequenza discreta, lineare, differenziale — non è l’unico né il più originario. Esistono segmenti discorsivi che funzionano per continuità, che operano per gradi, per intensità, per modulazione. È il caso dell’intonazione, che gioca un ruolo decisivo nell’interpretazione delle frasi, eppure sfugge alle griglie della digitalizzazione. Come mostrano gli studi di Dwight Bolinger, l’intonazione incide sul senso tanto quanto la grammatica o il lessico: non è un accessorio, ma una dimensione strutturante del significato.
Allo stesso modo, la gestualità — per esempio nel linguaggio dei segni dei sordomuti — mette in discussione la centralità del digitale. I segni visivi non sono meri simboli discontinui: incorporano figure, ritmi, direzioni, orientamenti. Molti segni sono motivatori, basati su analogie percettive con ciò che designano. Fabbri sottolinea che questi sistemi possiedono grammatiche complesse, ma articolate su dimensioni spaziali e plastiche, non solo su segmenti lineari.
La voce, il corpo, la scrittura stessa, non sono esclusivamente digitali. Il modo in cui si pronuncia una parola, si scrive una lettera, si guarda un’immagine, include sempre elementi non riducibili alla segmentazione binaria. Questo vale anche per la testualità audiovisiva, che combina livelli verbali, sonori, iconici in una stratificazione sincrona.
Fabbri cita le ricerche sulle asimmetrie cerebrali come esempio di come la scienza stessa abbia contribuito a radicare il dualismo analogico/digitale: emisfero sinistro logico-digitale, emisfero destro analogico-figurale. Ma questa divisione si rivela sempre più smentita dai dati neurofisiologici. Il cervello — e più in generale la mente umana — funziona secondo una plasticità integrativa, capace di coniugare e articolare entrambi i livelli.
In questa prospettiva, Fabbri sostiene che il linguaggio non è mai puramente digitale o analogico, ma costitutivamente stratificato. La significazione si produce nella tensione tra continuità e discrezione, tra figura e differenza, tra motivazione e convenzione. Ogni atto semiotico implica una coesistenza di regimi, che non si lasciano ridurre a una dicotomia originaria.
L’idea di un linguaggio completamente digitale è un’astrazione teorica, utile in certi modelli informatici o cibernetici, ma inadeguata per descrivere la densità fenomenica della significazione. Anche nel linguaggio verbale, l’organizzazione fonologica, l’accento, la pausa, l’enfasi costruiscono sensi non calcolabili come sequenze di simboli. Il segno, allora, è anche corpo, ritmo, intensità: elementi che il paradigma digitalista tendeva a escludere.
Così, la semiotica della svolta si configura come una teoria stratigrafica del linguaggio, capace di pensare insieme la discrezione del codice e la continuità dell’evento. Una semiotica in cui la voce non è l’ombra del testo, ma una dimensione primaria della significazione; in cui il gesto non è supplemento del verbo, ma forma piena di linguaggio; in cui l’immagine non è muta, ma parla secondo proprie leggi.
Riferimento bibliografico: Fabbri, P. (1998). La svolta semiotica. Italia: Laterza.