La teoria peirciana dei segni presuppone un livello più profondo rispetto alla classificazione semiotica in senso stretto. Prima ancora che i segni possano essere distinti per funzioni o modalità, occorre chiarire in quali forme fondamentali l’esperienza e l’essere si danno. È su questo piano che interviene la dottrina delle categorie, che Peirce definisce dapprima fenomenologia e poi phaneroscopy: un’analisi di ciò che appare, indipendentemente da ogni costruzione soggettiva o psicologica.
Martin Švantner insiste su questo punto, osservando che la semiotica peirciana non può essere compresa senza riferimento a tali presupposti ontologici. Le categorie non sono strumenti descrittivi opzionali, ma «basic and universal categories in phenomena», che «pervade all that we know as reality». Esse non classificano oggetti particolari, ma individuano i modi generali dell’essere così come si manifestano nell’esperienza.
La prima categoria, la Firstness, riguarda ciò che è in quanto possibilità o qualità: un modo dell’essere privo di relazione, colto nella sua immediatezza. La Secondness introduce invece l’azione, la relazione, l’urto: ciò che è in quanto entra in rapporto con altro e si impone come fatto. La Thirdness, infine, concerne la mediazione, la legge, la continuità: il livello in cui una relazione diventa stabile, comunicabile, generalizzabile.
Queste tre categorie non descrivono fasi successive, ma dimensioni sempre compresenti. Ogni semiosi le implica tutte: un segno presenta una qualità, entra in relazione con un oggetto e produce un effetto interpretabile secondo una regola o una legge. Per questo la triadicità del segno non è un artificio teorico, ma l’espressione semiotica di una struttura ontologica più generale.
La conseguenza è decisiva: non è possibile ridurre la semiotica a un formalismo o a uno schema astratto. Le categorie fondano la possibilità stessa della relazione segnica e impediscono che il segno venga concepito come un mero veicolo mentale. La semiosi è un processo reale, che coinvolge qualità, azioni e mediazioni, e che rinvia costantemente a un mondo che non coincide con le sue rappresentazioni.
In questo senso, l’analisi delle categorie fornisce il quadro entro cui la teoria dei segni acquista profondità e ampiezza. Senza tale fondamento, la semiotica rischierebbe di trasformarsi in una tipologia descrittiva priva di ancoraggio ontologico, incapace di rendere conto della relazione tra segni, oggetti e interpretanti.
Riferimento bibliografico: Martin Švantner, Struggle of a Description: Peirce and His Late Semiotics, in Human Affairs, 24, 2014, pp. 204–214.
