Accanto alla semiologia di ispirazione barthesiana, Paolo Fabbri individua un secondo paradigma teorico, più stabile e coerente, che definisce “paradigma semiotico”, e che riassume sotto il nome di Umberto Eco. Questa impostazione si costituisce in modo alternativo rispetto all’eredità saussuriana, rifiutando la centralità della lingua verbale come punto di partenza dell’analisi semiotica.
Fabbri osserva che Eco valorizza una tradizione diversa: quella inaugurata da Charles Sanders Peirce, secondo cui la semiotica è lo studio di tutti i tipi di segni, e non solo di quelli linguistici. Rispetto a Saussure, che aveva fondato la linguistica strutturale sulla centralità del segno linguistico, Peirce – pur senza avere una formazione linguistica adeguata – è considerato da Fabbri “uno dei più grandi epistemologi del nostro tempo”. In questo senso, il nucleo della posizione echiana consiste nel risalire “al di là della rottura epistemologica saussuriana” per recuperare una “storia del segno” che attraversa la filosofia occidentale a partire dalle sue origini greche, dal pensiero sul sema, sul semeion, sul nous.
Il paradigma echiano si struttura attraverso alcune strategie fondamentali. La prima è di tipo tassonomico: come in Peirce, anche in Eco la semiotica si presenta come una teoria classificatoria dei segni e delle loro combinazioni. Fabbri parla di “una teoria di tipo tassonomico”, che classifica i vari tipi di segni e ne studia i passaggi reciproci. A questa componente classificatoria si affianca una componente sintattica, che riguarda i movimenti da un segno all’altro.
Il principio guida è quello del rinvio: “il segno è un rinvio, si dà quando qualcosa sta al posto di qualcos’altro”. Eco spiega questo meccanismo attraverso il modello dell’inferenza logica, mutuando da Aristotele i tre tipi fondamentali: induzione, deduzione e abduzione. In questa prospettiva, “il passaggio fra segni è in tal modo, non dico ridotto, ma certamente focalizzato in questa direzione”.
Una seconda strategia riguarda il quadro all’interno del quale queste inferenze si muovono: un quadro eminentemente testuale. Dopo un iniziale interesse per segni visivi, gestuali, cinematografici, architettonici, si è rapidamente tornati a considerare il testo come modello fondamentale della significazione. Ma, nota Fabbri, “il testo a cui si pensa, guarda caso, è ancora una volta di tipo eminentemente scritto, forse talvolta parlato, in ogni caso soltanto linguistico”. In tal modo, dopo aver affermato l’importanza teorica della non-linguisticità, si è ritornati “a una riflessione di tipo linguistico”.
A coronamento di queste strategie si colloca l’idea di una storia del segno, ovvero la necessità di una storiografia della significazione che ricostruisca i modi con cui la filosofia ha pensato il segno nei secoli. Fabbri riconosce che questa è anche una scelta strategica sul piano accademico: ricostruire per la giovane disciplina semiotica un possibile pedigree filosofico. Ma sottolinea come essa risponda anche a una “scelta intellettualmente pertinente”, perché consente di comprendere come si sia giunti a una certa immagine del segno nel presente.
Tuttavia, questa impostazione storiografica presenta anche rischi. Uno di questi è quello di proiettare nel passato categorie moderne, attribuendo a pensatori come Agostino concezioni che non gli appartengono. Ad esempio, si può sostenere che Agostino adottasse “una semantica a istruzioni”, ma poi – osserva Fabbri – leggendo attentamente il De civitate Dei, si scopre che “il filosofo sostiene che [una frase] è composta di sette o otto segni”, senza distinguere tra congiunzioni, verbi, nomi, articoli e l’intera frase stessa. Questo conduce al problema della coerenza storica: come ricostruire una storia del segno senza cadere nell’anacronismo?
Un secondo esempio, forse ancora più emblematico, riguarda l’opera di Eco sulle lingue perfette. Pur riconoscendo al libro una documentazione “assoluta e impeccabile”, Fabbri sottolinea che esso mette “unificati – come l’atomo di cui parlavo prima – Raimondo Lullo e l’esperanto”, operando un accostamento teoricamente problematico. Mentre Lullo mira a strutturare “una forma del contenuto”, indipendente dalla lingua, l’esperanto opera su “una diversa forma espressiva fondata sulla sostanza fonetica”. Due progetti radicalmente diversi, entrambi orientati a una lingua perfetta, ma in direzioni opposte: uno sul piano semantico, l’altro su quello formale.
L’esempio, secondo Fabbri, mostra come una storiografia della significazione sia necessaria, ma anche esposta a “situazioni francamente imbarazzanti” se non si tiene conto della radicale eterogeneità delle tradizioni teoriche.
Riferimento bibliografico: Fabbri, P. (1998). La svolta semiotica. Italia: Laterza.