Il grande ritorno del mito nel discorso semiotico del Novecento non è avvenuto, paradossalmente, attraverso lo studio dei miti antichi, ma attraverso la critica dei miti contemporanei. Questo passaggio ha un nome preciso: Roland Barthes.
Nel 1957, con la pubblicazione di Mythologies, Barthes proponeva una “semiologia generale del nostro mondo borghese” fondata su un gesto di smascheramento: i miti del presente non sono racconti sacri o favole remote, ma narrazioni quotidiane che pretendono di essere vere, naturali, inevitabili — e che invece sono costruzioni culturali e ideologiche. Il loro scopo è celare la storicità e la contingenza dietro una maschera di “naturalità”.
Barthes, scrive Volli, sosteneva che «il mito ha il compito di istituire un’intenzione storica come natura, una contingenza come eternità». Questo è precisamente il meccanismo dell’ideologia borghese: trasformare in “essenza” ciò che è prodotto da un sistema di potere. Il mito, in questa visione, «è una parola depoliticizzata», che svuota il reale, lo priva del ricordo della sua fabbricazione storica, lo rende opaco alla coscienza critica.
Il mito moderno, per Barthes, è dunque uno strumento politico. Non un segno qualsiasi, ma un sistema semiotico di secondo livello, una connotazione che nasconde la denotazione originaria. E proprio perché il suo funzionamento è semiotico, può (e deve) essere demistificato con strumenti semiotici.
La lista degli esempi barthesiani è nota e, a tratti, volutamente provocatoria: il catch e l’Abbé Pierre, il viso della Garbo e il cervello di Einstein, lo striptease e il Tour de France, la Citroën DS e l’astrologia. Tutti sono oggetti quotidiani, apparentemente innocenti, ma capaci di veicolare ideologie profonde. Non sono miti nel senso antico, ma miti d’oggi.
Volli nota che queste analisi derivano da articoli giornalistici, ma culminano in un saggio teorico decisivo: Il mito, oggi. Qui Barthes formula per la prima volta un quadro metodologico organico, anticipando di sette anni i suoi Éléments de sémiologie. L’analisi del mito contemporaneo diventa così il primo banco di prova per la semiologia stessa.
È però a questo punto che emergono anche le ambiguità. Barthes afferma che quasi non vi sarebbero miti “a sinistra”, mentre tutto il discorso della destra sarebbe mitico, anche «in fatto di matrimonio, di cucina, di casa, di teatro, di giustizia, di morale». Una posizione estrema, ideologicamente orientata, che Volli giudica con attenzione: «Quel che ci interessa qui non è l’analisi di posizioni evidentemente estremiste e unilaterali […], quanto il fatto che nella sua intenzione e in quella di molti altri studiosi attivi nei dieci o quindici anni successivi […], [la semiologia] era concepita innanzitutto come “mitologia” o “critica dell’ideologia”».
La semiologia nasce così con una vocazione critica e militante. Per molti, come Barthes o anche Eco nei suoi primi scritti (si pensi a Apocalittici e integrati, 1964), essa è uno strumento per smascherare i contenuti culturali della società borghese, mostrarne il lato oscuro, decostruirli. Il mito, in questo senso, è il cuore della semiologia — almeno agli inizi.
Questo legame tra mito e ideologia è anche, secondo Volli, uno dei punti di maggiore affinità con la controcultura degli anni Sessanta, e persino con la futura “moda della decostruzione”. Quando Barthes scrive Mythologies, Derrida è ancora studente; ma l’orientamento è già tracciato.
Barthes affascina, secondo Volli, perché sembra autorizzare con una metodologia scientifica una critica culturale che ha connotazioni fortemente ideologiche. Etichettare qualcosa come “mito” significa legittimarsi a decostruirlo. Ma proprio in questa operazione si annida il paradosso: mentre si critica l’ideologia altrui, si produce un’altra ideologia, forse solo più raffinata.
Così, dietro la maschera del semiologo, si nasconde talvolta il mitologo moderno, portatore di una nuova fede politica. Una fede che finirà, negli anni Settanta, per entrare in tensione con la crescente aspirazione della semiotica a divenire scienza.
Riferimento bibliografico: U. Volli, Dalla semiotica del mito al mito della semiotica