L’idea di un corpo ridotto a semplice materia, passivo supporto dell’anima o della mente, ha segnato profondamente la tradizione filosofica occidentale. Simona Stano ricostruisce questa genealogia concettuale, mettendo in luce come la separazione tra corpo e spirito sia stata per secoli il presupposto dominante nel pensiero europeo, e come invece diverse correnti abbiano cercato di superarlo, preparando il terreno a una concezione semiotica della corporeità.
Nel pensiero religioso, il corpo è spesso rappresentato come elemento corruttibile e terreno, contrapposto all’anima e allo spirito. La Treccani, ricorda l’autrice, ne definisce ancora oggi l’uso “soprattutto in concezioni e dottrine religiose” come “elemento corruttibile”, riportando così l’eco della concezione platonica del corpo come “tomba” dell’anima. San Paolo, nelle Lettere ai Romani, oppone in modo netto “ciò che è carnale” a “ciò che è spirituale”, consolidando una visione morale della disforia tra corpo e spirito.
Un’ulteriore razionalizzazione di questa separazione si trova nel pensiero cartesiano. Cartesio distingue tra res extensa (il corpo, realtà materiale e inconsapevole) e res cogitans (la mente, libera e pensante). Il corpo è un oggetto tra gli altri, una macchina che invia informazioni ai sensi, ma che può essere pensata come completamente distinta dall’anima. Solo più tardi, nel trattato Les passions de l’âme, Cartesio riconoscerà una possibile interazione mente-corpo nella ghiandola pineale, ma senza abbandonare il dualismo che caratterizza il Discours de la méthode.
Eppure, osserva Stano, anche nella storia del pensiero occidentale non sono mancate posizioni alternative. Aristotele, già nel De Anima, rifiuta ogni separazione ontologica tra corpo e anima: l’anima è la forma del corpo, non qualcosa di aggiunto. Anche Nietzsche rompe con ogni metafisica del dualismo: «Corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro», scrive in Così parlò Zarathustra, riducendo l’anima a “una parola per indicare qualcosa del corpo”.
Un’altra svolta fondamentale si ha con Husserl, che distingue tra Körper e Leib: il primo è il corpo oggetto della conoscenza scientifica, il secondo è il corpo vissuto, soggettivamente esperito. Su questa base, Merleau-Ponty svilupperà la sua fenomenologia della percezione, che costituirà una delle premesse teoriche decisive per la riflessione semiotica contemporanea sul corpo.
Stano evidenzia come tutte queste posizioni contribuiscano a un cambio di paradigma: dal corpo come oggetto alla corporeità come soggetto della significazione. In questa prospettiva, avere un corpo non è più solo una condizione biologica, ma un’esperienza culturale, affettiva, simbolica. L’essere umano non ha un corpo, lo è. E in quanto tale, è anche sempre iscritto in processi discorsivi e simbolici che ne determinano senso e forma.
Questa trasformazione concettuale — dalla meccanica cartesiana all’intenzionalità fenomenologica — ha reso possibile una lettura semiotica della corporeità come sintesi dinamica di fisicità e cognizione, di esperienza vissuta e costruzione simbolica. Una soglia, appunto, tra mondo e soggetto.
Riferimento bibliografico: Simona Stano, La soglia del senso. Il corpo come istanza semiotica, in «Il programma scientifico della semiotica», ottobre 2019, pp. 147–160.