Nel ricostruire la storia della semiotica come disciplina, Paolo Fabbri propone di cominciare da una svolta: quella che ha trasformato una riflessione antica sul segno in una disciplina autonoma dotata di una propria consistenza teorica. È solo a partire dagli anni Sessanta che si può davvero parlare di “semiotica” in senso moderno.
Fabbri identifica due principali traiettorie, ciascuna incarnata — per comodità espositiva — da una figura rappresentativa. La prima è Roland Barthes, il quale pratica una semiologia come critica delle connotazioni ideologiche all’interno dell’“iper-sistema di segni” costituito dalla lingua. Per Barthes, ogni sistema di segni all’interno di una cultura — gestuale, musicale, visivo — è in ultima istanza traducibile nella lingua verbale, considerata come metasistema capace di nominare se stessa e gli altri sistemi semiotici. Ne deriva una concezione della semiotica come trans-linguistica, fondata sul privilegio della verbalità, e radicata nella tradizione umanistica delle arti liberali.
È proprio questa collocazione che, secondo Fabbri, ne determina il successo e il limite: “inserendosi in una scia culturale che forse non le apparteneva di diritto”, la semiologia barthesiana si dissolve nel generico umanesimo, finendo per svanire con esso. L’esempio più evidente di questa dissoluzione è il ritorno della retorica antica, con la sua confusione teorica: la nuova retorica semiologizzante accumula figure retoriche di origini disparate, producendo una babele teorica che rende impossibile qualsiasi coerenza metodologica.
A questa traiettoria Fabbri contrappone una seconda linea, rappresentata da Umberto Eco. Il paradigma semiotico che si forma intorno alla sua figura si costruisce esplicitamente contro l’eredità saussuriana, e recupera invece la tradizione di Charles S. Peirce. Qui la semiotica non è subordinata alla lingua, ma si configura come scienza generale dei segni, che include linguaggi verbali e non verbali, architettonici, visivi, gestuali.
Fabbri individua tre strategie teoriche in questo paradigma:
- Una strategia tassonomica, in cui i segni vengono classificati e combinati secondo logiche inferenziali (deduzione, induzione, abduzione). La macchina dei segni si muove secondo modelli sillogistici.
- Una strategia testualista, in cui la semiotica si riorienta verso l’analisi del testo, prevalentemente scritto, reintegrando surrettiziamente il linguaggio verbale come modello di ogni processo semiotico.
- Una strategia genealogica, che cerca di fondare la semiotica ricostruendone una storia intellettuale: non tanto attraverso la riflessione teorica esplicita sul segno, ma seguendo le immagini del pensiero soggiacenti ai testi della filosofia e della scienza.
Queste tre strategie contribuiscono a un paradigma semiotico forte, ma non privo di ambiguità. Ad esempio, Fabbri nota le difficoltà della ricostruzione storiografica della nozione di “segno”, poiché il termine viene usato — da Agostino a Eco — per indicare entità profondamente diverse e non commensurabili. Così, un’analisi rigorosa dovrebbe evitare di equiparare, senza distinzione teorica, progetti radicalmente eterogenei come quello di Raimondo Lullo e dell’esperanto, o di attribuire retroattivamente una “semantica a istruzioni” al pensiero agostiniano.
La riflessione di Fabbri si orienta quindi verso una revisione critica dei presupposti epistemologici della semiotica: occorre vigilare contro l’effetto tunnel che collega direttamente testi ed esempi filosofici, saltando i livelli intermedi del metodo e della teoria, e rischiando così la tautologia. La svolta semiotica implica allora un duplice gesto: criticare la deriva umanistica e lessicologica della semiologia barthesiana, e problematicizzare le premesse teoriche del paradigma tassonomico e inferenziale della semiotica peirciana/eciana.
Riferimento bibliografico: Fabbri, P. (1998). La svolta semiotica. Italia: Laterza.