Secondo Valentina Pisanty, il termine “interpretazione” non ha un solo significato. La nozione stessa di interpretare «dà adito a una varietà di sensi diversi», che si sono stratificati nel tempo, ma che convivono anche nell’uso contemporaneo.
In primo luogo, interpretare significa capire il senso di un testo, spiegarlo rispettandone il significato corretto o originario, soprattutto quando il tempo ha creato una distanza tra l’opera e il lettore. È questa l’accezione più comune nella tradizione ermeneutica occidentale: il lettore cerca di restituire il messaggio dell’autore, riportandolo al contesto di produzione, linguistico o storico, in cui è nato.
In secondo luogo, Pisanty osserva che interpretare può significare attualizzare o sviluppare qualcosa di già esistente, producendo una versione nuova e autonoma. È il caso, ad esempio, dell’interpretazione di Schopenhauer operata da Nietzsche, che non si limita a chiarire un significato originario, ma utilizza il testo come punto di partenza per una nuova elaborazione. In questa prospettiva, l’atto interpretativo implica una rielaborazione creativa, e non si esaurisce nella ricostruzione del senso intenzionale.
Infine, interpretare può voler dire riprodurre un testo in un altro sistema espressivo: come accade quando un musicista esegue un brano o un attore recita una parte. L’interpretazione, in questo caso, è una traduzione intersemiotica: un passaggio da un codice simbolico a un altro, in cui il contenuto viene trasposto da una partitura scritta a un’esecuzione sonora, o da un copione a una rappresentazione scenica.
Pisanty sottolinea che, già nella cultura greca, la parola hermeneía racchiudeva tutte queste accezioni. Il termine era usato per indicare non solo la traduzione da una lingua all’altra, ma anche la spiegazione, la dichiarazione, l’espressione del pensiero, e persino l’esecuzione musicale. L’interpretazione, nella tradizione ellenica, è quindi intesa come un atto di manifestazione pubblica del senso, uno sforzo per rendere chiaro ciò che non lo è.
In tutte le sue forme, l’interpretazione implica un passaggio da qualcosa di oscuro, implicito o remoto, a una forma comprensibile, visibile o udibile, resa tale grazie all’intervento dell’interprete. Anche nell’ermeneutica filosofica del Novecento, spiega Pisanty, resta questo presupposto fondamentale: interpretare significa «mettere a nudo dei meccanismi celati», che siano di natura linguistica, psicologica, sociale o simbolica.
Che si tratti di un’operazione esegetica, creativa o performativa, ogni interpretazione è un atto che rende manifesto il senso. E ciò che unifica tutte queste forme diverse è proprio questa funzione: far emergere il significato, esplicitarlo, trasformarlo da potenzialità a atto.
Valentina Pisanty – Roberto Pellerey, Semiotica e interpretazione, Bompiani, Milano 2004.