Claudio Paolucci affronta una questione epistemologica centrale: quale relazione intercorre tra strutturalismo, semiotica e fenomenologia? E, in particolare, quale fondamento può avere una semiotica che intenda davvero dirsi strutturale e interpretativa, se posta a confronto con la tradizione fenomenologica? Il nodo viene sciolto a partire da un’alleanza: quella tra strutturalismo e faneroscopia, opposta a quella – che l’autore considera fuorviante – tra strutturalismo e fenomenologia.
Il punto di partenza è un celebre saggio di Deleuze (1973), in cui si affermava che non esiste struttura se non di ciò che è linguaggio. Secondo questa impostazione, non si tratta di imporre al reale un modello linguistico, bensì di riconoscere che ogni struttura, per potersi dire tale, “parla”, possiede cioè un’essenza discorsiva. Il primato del discorsivo sul percettivo, del “dire” sul “mostrare”, diventa così la chiave per distinguere radicalmente la semiotica strutturalista da ogni impostazione fenomenologica.
Paolucci sottolinea che questo primato non ha nulla a che vedere con un linguocentrismo ingenuo: si tratta invece di un’assunzione epistemologica precisa, che porta a concepire ogni forma del sensibile come struttura semiotica. È in questo quadro che l’autore richiama la lezione di Peirce, e in particolare il suo anti-intuizionismo: nessuna cognizione è data direttamente. Ogni percezione è già sempre mediata, ogni fenomeno è già sempre un segno. “Ogni presentazione – scrive Paolucci, seguendo Peirce – è sempre una ripresentazione”.
Il concetto chiave è quello di representamen: ogni fenomeno che si fa presente alla coscienza è sempre un rappresentante di qualcos’altro. È solo perché un rappresentamen viene interpretato da un altro segno che il fenomeno si rende visibile sotto un certo rispetto. La coscienza intenzionale, nella prospettiva peirciana, non vede, dice: non si dà mai un’intuizione immediata, bensì un atto interpretante che struttura il visibile attraverso il discorsivo.
Da qui deriva una forma di faneroscopia semiotica: una scienza dei fenomeni che, al contrario della fenomenologia classica (da Husserl a Merleau-Ponty), non parte da una “presenza” da contemplare, ma da una catena di segni che rimandano sempre ad altri segni. Laddove Heidegger fondava la fenomenologia su un “lasciar vedere ciò che si manifesta da sé”, Paolucci, rifacendosi a Peirce, ribadisce che ogni manifestazione è mediata, rimandata, mai immediata.
Il discorso fenomenologico, come mostra il riferimento a Essere e tempo, conserva sempre una tensione verso il mostrare. Il logos, per Heidegger, è ciò che “lascia vedere mostrando”. Ma in questa concezione, spiega Paolucci, si annida una “elevazione a maggiore” del visibile rispetto al dicibile. È la posizione opposta a quella semiotica faneroscopica, dove la visibilità è sempre subordinata al discorso che la rende possibile.
Paolucci individua in questo scarto il fondamento del paradigma interpretativo: se la semiotica generativa è segnata da un’ibridazione tra strutturalismo e fenomenologia, l’alternativa è un’unione tra strutturalismo e faneroscopia. Il risultato è un impianto epistemologico che rifiuta sia il primato dell’esperienza sensibile sia la centralità della voce come garanzia fenomenologica.
L’interpretante, in Peirce, non è un’intuizione, ma un segno che dice qualcosa su un altro segno. In questa catena, ogni “visibilità” è un effetto di discorsività, ogni manifestazione è sempre mascheramento. È questo che rende possibile anche la menzogna, elemento costitutivo dell’oggetto semiotico.
La fenomenologia, per contro, si fonda su un’esperienza originaria precategoriale. Merleau-Ponty, citato da Paolucci, parla di una “voce delle cose” che parla nel linguaggio. Ma per la faneroscopia peirciana, le cose non parlano: sono fatte parlare da catene di segni. La loro voce è sempre una voce interpretata.
In questo modo, Paolucci rimette al centro il nesso strutturale tra semiotica e logica, così come lo aveva definito Peirce: la semiotica è la teoria delle rappresentazioni mediate, ovvero la teoria di ciò che rende possibile la conoscenza attraverso il segno. Non si tratta allora di vedere i fenomeni, ma di dire attraverso quali segni essi vengono costruiti come fenomeni.
Questa impostazione, secondo Paolucci, consente una ridefinizione profonda della semiotica interpretativa, fondata su un equilibrio dinamico tra strutturalismo e faneroscopia, lontana tanto dal naturalismo della percezione quanto dalla chiusura simulacrale della generatività.
Riferimento bibliografico: Claudio Paolucci, Strutturalismo e interpretazione. Ambizioni per una semiotica “minore”, Milano, Bompiani