La sociosemiotica – così come viene delineata da Maria Pia Pozzato – si trova spesso al centro di una critica ricorrente: quella di concentrarsi su analisi troppo particolari, senza riuscire a elaborare teorie generali del sociale. Ma questa critica, osserva l’autrice, è la stessa che è stata rivolta anche alla microstoria, e in particolare a Carlo Ginzburg, uno dei suoi principali teorici.
Il problema comune è: bisogna privilegiare i casi eccezionali e poco stereotipati, oppure quelli medi, rappresentativi di una serie? La risposta che Ginzburg fornisce – e che Pozzato fa propria – è netta: non esiste una contraddizione tra il singolo e la serie. Ogni documento, anche il più anomalo, può essere inserito in una serie più ampia, e anzi, analizzare l’eccezione permette di illuminare l’insieme. Così scrive Ginzburg: «alcune manifestazioni appaiono interessanti in quanto ricorrenti, o tipiche; altre volte ci si imbatte in qualcosa che non torna, che contrasta con le nostre aspettative».
Pozzato riconosce che sia la microstoria sia la sociosemiotica condividono una predilezione per corpora ridotti, che consentono una descrizione fine e articolata. Tuttavia, questa riduzione non chiude mai l’oggetto: «ogni testo, di qualsiasi natura esso sia, è comunque legato a un contesto e quindi aperto a una rete potenzialmente infinita di relazioni».
La soluzione metodologica, prosegue l’autrice, consiste in un continuo «procedere a zig zag», come suggerisce ancora una volta Geertz: da osservazioni sempre più dettagliate a caratterizzazioni sempre più sinottiche, in modo che entrambe concorrano a dare un ritratto credibile e completo di una forma di vita umana. In questa prospettiva, non sono le teorie astratte a fornire le chiavi interpretative, ma i contesti effettivi, ovvero i corpora.
Il ragionamento si sposta poi sul piano della soggettività. Ferdinand de Saussure già ammoniva che, per non rendere “irreale” il linguaggio, occorre tener conto della langue, della parole e della dimensione sociale. Pierre Bourdieu va oltre, definendo l’habitus come una forma di oggettività radicata nell’esperienza soggettiva. Secondo Pozzato, questa posizione si avvicina a quella di Geertz, per il quale sono le pratiche sociali a formare la soggettività.
Insieme all’habitus di Bourdieu, l’autrice accosta altri dispositivi teorici che relativizzano l’individuo: l’ethos di Geertz, i sistemi di valori di Greimas, l’episteme di Foucault, la semiosfera di Lotman, i codici di Lévi-Strauss. Tuttavia, tra tutti questi approcci, Pozzato individua una differenza significativa: Landowski, Bourdieu e Geertz – ciascuno a suo modo – danno maggiore rilievo alla dimensione micro e negoziale del senso, a un’interazione che non si esaurisce nelle norme introiettate, ma le rielabora nel vissuto.
In questa prospettiva, la vocazione al particolare della sociosemiotica non è un limite, ma una risorsa da difendere. In un’epoca afflitta da generalizzazioni frettolose, la complessità, la circostanzialità, la singolarità del caso diventano strumenti analitici di precisione. Come ricorda Geertz: «la generalità che l’antropologia riesce eventualmente a raggiungere nasce dalla finezza delle sue distinzioni, non dallo slancio delle sue astrazioni».
In conclusione, la sociosemiotica non si vergogna della sua attenzione al dettaglio: ne fa un principio epistemologico, una scelta consapevole. Ogni oggetto, ogni corpus, ogni pratica analizzata è un’occasione per interrogare il senso, non per inchiodarlo a categorie precostituite. E in questo movimento, che va dal singolare al collettivo, si disegna un modello teorico tanto più solido quanto più è radicato nelle forme del vivere.
Riferimento bibliografico:
Maria Pia Pozzato, Sociosemiotica. Scienza del generale o del particolare?, in Semiotica delle soggettività, Mimesis, 2013, pp. 145–153