Nel tracciare l’evoluzione della disciplina semiotica, Anna Maria Lorusso riconosce in François Rastier un autore decisivo per l’ampliamento dell’analisi semantica in direzione dei processi di significazione e testualizzazione. Rastier, formatosi sulla scia del modello strutturalista, ne condivide l’impianto, ma ne riformula profondamente le prospettive operative, introducendo una distinzione teorica tra semi inerenti e semi afferenti.
L’autrice spiega che, per Rastier, i semi inerenti sono “tratti definitori del semema”, che appartengono al sistema funzionale della lingua, considerato universale. I semi afferenti, invece, derivano da altri tipi di codificazioni — norme sociali, generi discorsivi, usi individuali — e per questo “non sono secondari o subordinati agli altri”, ma partecipano attivamente alla costruzione del senso.
L’originalità della proposta sta nel riconoscere che la distinzione tra tratti definitivi e tratti contestuali è valida solo in astratto. Lorusso sottolinea che “non è possibile in contesto separare i tratti non definitori da quelli centrali”, perché anche gli elementi accessori possono assumere un ruolo costitutivo. In una determinata situazione discorsiva, ciò che in un’altra sarebbe irrilevante può diventare discriminante per l’interpretazione.
Questo riconoscimento porta Rastier a superare il progetto strutturalista di inventariazione stabile del significato. La significazione, infatti, non è data una volta per tutte da un sistema di opposizioni interne, ma dipende dalle condizioni materiali, sociali e pragmatiche in cui il segno si realizza. L’autrice osserva che “la natura delle due classi di semi è diversa”, ma proprio per questo entrambe sono necessarie per una semantica interpretativa che voglia rendere conto del senso nei testi.
In questa prospettiva, la semiotica si allontana dall’analisi dei segni isolati e si concentra sui processi di produzione segnica, di testualizzazione e di messa in discorso. Lorusso rileva che “la semiotica, mentre si è andata definendo come disciplina, ha progressivamente rinunciato allo studio dei segni isolati”, preferendo lo studio di pratiche concrete in cui i segni si attualizzano.
L’autrice individua un precedente importante in Umberto Eco. In una pagina meno nota del Trattato di semiotica generale, Eco aveva già orientato l’attenzione “dai sistemi di segni ai processi della produzione segnica”. Il tentativo era di “rendere conto […] dei vari tipi di lavoro necessari per produrre materialmente i segni”, elaborando una tipologia fondata sulle modalità di fabbricazione dell’espressione.
Per Eco, ricorda Lorusso, il segno “si definisce rispetto alle pratiche produttive e significanti, più che rispetto al sistema dei contenuti semantici che veicola”. È un segno condizionato dai suoi aspetti materiali, dalle competenze dell’emittente e dagli scopi comunicativi. Non più solo manifestazione di un codice, ma prodotto situato, articolato in una rete dinamica di vincoli e possibilità.
È su questa linea che si inscrive la semiotica contemporanea, sempre più attenta alle strategie testuali, ai generi, ai modi di enunciazione e alle forme della cultura. Con Rastier, conclude implicitamente Lorusso, la semiotica si libera definitivamente dell’illusione che il senso possa essere separato dal contesto.
Riferimento bibliografico:
Anna Maria Lorusso. Semiotica. 2005 Raffaello Cortina Editore