Tra le principali fonti della teoria hjelmsleviana, Galofaro individua la tradizione saussuriana, con cui Hjelmslev entra in contatto almeno dal 1925. Più che Saussure in persona, sono le rielaborazioni successive a costituire il punto di riferimento diretto. Il progetto di una grammatica generale prevede infatti un inquadramento dei fenomeni linguistici all’interno di una semiotica più ampia, articolata su diversi metalivelli.
Il rapporto tra Hjelmslev e Saussure, però, non è privo di distanze. Il punto in cui Hjelmslev si discosta esplicitamente dal Cours è la distinzione saussuriana tra forma e sostanza. A questa opposizione, Hjelmslev preferisce quella tra forma e materia, la cui compenetrazione permette di parlare di sostanza sia sul piano dell’espressione che su quello del contenuto.
Per Hjelmslev, la sostanza saussuriana è concepita come una “nebulosa confusa” che precede l’organizzazione formale. Questa concezione non è necessaria dal punto di vista linguistico: non occorre postulare che il pensiero preceda la lingua. In questo senso, Hjelmslev sposa più radicalmente di Saussure l’idea di una linguistica sincronica. La linguistica diacronica — osserva Galofaro — presuppone quella sincronica, non viceversa, e non può costituirne la base teorica.
Il rifiuto del sostanzialismo emerge anche nel confronto con alcune formulazioni saussuriane sulla “substance phonique” e sull’indeterminatezza delle idee prima dell’articolazione linguistica. Per Saussure, la lingua prende forma progressivamente da una materia scarsamente definita; per Hjelmslev, invece, la materia è pura possibilità della forma, non necessariamente attuale o realizzata, ma virtuale. Qui si innesta un forte legame con la tradizione semantica post-kantiana e con il concetto aristotelico di sinolo.
Questa divergenza non è solo filosofica, ma ha ricadute analitiche: Hjelmslev richiama la differenza strutturale tra lingue, ad esempio tra il danese e l’inglese, per mostrare come termini grammaticali presenti in una lingua manchino in un’altra. Galofaro ricorda anche che, per Saussure, “sarebbe un errore credere che esista una sintassi incorporea fuori di tali unità materiali distribuite nello spazio”. La grammatica universale, che non preoccupa lo Hjelmslev nominalista, resta invece una questione aperta nel pensiero saussuriano.
Nel quadro hjelmsleviano, la forma del contenuto è indipendente dalla materia e ne fa una sostanza. Si apre così la possibilità di pensare a uno schema generale valido per tutte le lingue, che costituisce un modello funzionale, non necessariamente realizzato.
Questo ha conseguenze anche per il problema del metalinguaggio. Galofaro osserva che, se la lingua fosse definita come rapporto tra due sostanze (suono e pensiero), sarebbe difficile distinguere tra linguaggio oggetto e metalinguaggio. Al contrario, una definizione formalista consente di mantenere una distinzione logica tra i due livelli: il metalinguaggio contiene la forma del linguaggio-oggetto, ma ne differisce per la presenza di variabili logiche di tipo superiore.
In questo contesto, Hjelmslev sostituisce al concetto di “rapporto associativo” (usato da Saussure) quello di rapporto paradigmatico. Il cambiamento è motivato dal rifiuto di ogni psicologismo residuo. Scrive infatti che la terminologia derivata dal Cours non deve implicare alcuno psicologismo. Tuttavia, la sostituzione non è indolore: per Saussure, il paradigma flessionale ha un numero limitato di membri, mentre le serie associative sono potenzialmente indefinite. In ogni caso, la scelta hjelmsleviana risponde alla necessità di limitare l’analisi a un numero finito di elementi.
Un altro aspetto decisivo è il legame con gli studi sull’indoeuropeo. Hjelmslev applica i concetti della glossematica anche alla linguistica diacronica, distinguendo tra diacronia (condizionata da fattori estrinseci) e metacronia (che studia le condizioni interne dei cambiamenti). Il cosiddetto pre-indoeuropeo, per Hjelmslev, non rappresenta uno stadio evolutivo distinto, ma un livello astratto che sta alle spalle della norma e dell’uso.
Il sistema ricostruito è, per Hjelmslev, una costruzione ipotetica funzionale alla spiegazione. Non ha realtà storica, ma serve a spiegare i sistemi attestati. La teoria che lo descrive deve rispondere al criterio di semplicità, tanto più importante in un ambito — come quello dell’indoeuropeo — in cui “i fatti concreti ci sfuggono completamente”.
Galofaro mette in evidenza il rapporto di Hjelmslev con la tradizione kantiana, in particolare attraverso l’influenza esercitata su di lui da grammatici come Gottfried Hermann. Tuttavia, la distinzione kantiana tra forma e materia è intesa da Hjelmslev in senso non psicologistico. Kant si occupava di concetti come fenomeni della mente, mentre la semiotica logica, sviluppatasi dopo Kant, tende ad abbandonare questa prospettiva.
Il modello euclideo della geometria influenza sia Kant sia Hjelmslev. Galofaro ricorda il celebre passo di Hilbert secondo cui il significato di “punto” non deriva da un’intuizione, ma esclusivamente dagli assiomi. Anche Hjelmslev adotta una posizione simile: il significato è determinato dal sistema. La stilistica, che si occupa delle deviazioni rispetto alla norma, non è compito della linguistica.
Nella prospettiva hjelmsleviana, la teoria fissa completamente il significato dei propri concetti teorici, e ogni significato extrateorico rischia di introdurre confusione. Per questo motivo, l’indoeuropeo non è una realtà storica da ricostruire, ma un sistema costruito per spiegare altri sistemi.
Infine, Galofaro sottolinea che, pur rifacendosi alla logica e alla geometria formale, Hjelmslev mantiene una definizione della materia del contenuto che non è puramente formale. Essa è il senso, il pensiero, e resta indispensabile per comprendere l’arbitrarietà della forma. La distinzione tra forma e materia del contenuto rappresenta, per Galofaro, il vero tratto di originalità della teoria hjelmsleviana rispetto alla tradizione kantiana.
Francesco Galofaro, METASEMIOTICHE. Una ricognizione epistemologica.