Paolo Peverini propone di leggere il confronto tra semiotica e pensiero di Bruno Latour non nei termini di una frattura epistemologica, ma come un disallineamento metodologico. Le nozioni cardine della teoria semiotica — attante, attore, enunciazione, programma narrativo, modo di esistenza — vengono, secondo Peverini, rilette da Latour in modo non ortodosso, ma potenzialmente fertile. Questa rilettura ha prodotto ricadute significative su almeno tre traiettorie di ricerca: l’elaborazione di una teoria estesa dell’enunciazione, il rinnovato rapporto con l’antropologia culturale e lo studio semiotico degli oggetti e degli artefatti tecnologici.
Il primo ambito riguarda la teoria dell’enunciazione, espansa oltre i confini dei generi discorsivi tradizionali. In Latour, l’enunciazione non è più solo un dispositivo testuale, ma diventa una struttura di deleghe e mediazioni che rende possibile la relazione tra entità dotate di diversi modi di esistenza. L’enunciazione è ciò che consente a un attore ibrido di costituirsi, mantenere la propria forma e operare in una rete di associazioni. Peverini sottolinea che, in questa prospettiva, la nozione di agente si articola attraverso passaggi di agentività, che mettono in relazione elementi eterogenei capaci di cooperare e di trasformarsi reciprocamente.
La seconda direttrice analizza il superamento della dicotomia natura/cultura e la ripresa del dialogo tra semiotica e antropologia culturale. I concetti di multinaturalismo e internaturalità diventano strumenti per descrivere forme di vita in cui soggetti umani e non umani partecipano a sistemi significativi condivisi. In questo quadro, la semiotica si confronta con le prospettive aperte da autori come Descola e Viveiros de Castro, riconoscendo la necessità di analizzare i fenomeni sociali alla luce di configurazioni complesse in cui le opposizioni moderne risultano inefficaci.
Il terzo ambito è quello della semiotica degli oggetti. La diffusione di artefatti tecnologici intelligenti — smartphone, smart speaker, smart TV — impone alla semiotica il compito di descrivere gli assemblaggi tra attori umani e non umani che ne rendono possibile il funzionamento. Peverini osserva che questi dispositivi, tanto intuitivi quanto pervasivi, danno forma a una società di ibridi in cui l’umano e l’oggetto si co-definiscono. La naturalizzazione delle pratiche tecnologiche è il risultato di un processo sofisticato di depurazione, che maschera la rete di relazioni sottostanti e rende trasparenti le operazioni svolte dalle macchine.
Tuttavia, ridurre questi fenomeni a semplici casi di feticismo significherebbe cadere in un errore simmetrico rispetto al pregiudizio antropocentrico. Il vero nodo, secondo Peverini, consiste nel riconoscere che gli artefatti tecnologici non sono meri supporti, ma attanti capaci di far fare. In questa prospettiva, l’antropomorfismo non è una proiezione arbitraria dell’umano sul non umano, ma un processo attraverso cui gli artefatti acquisiscono una funzione sociale trasformativa. Riprendendo Latour, Peverini ricorda che un oggetto può dirsi antropomorfo quando: 1) è stato concepito da un umano; 2) agisce per sua delega, rimpiazzandone una serie di azioni; 3) contribuisce a dare una nuova forma all’umano, generando abitudini tanto consolidate da sembrare naturali.
Questa riflessione si traduce in un programma per una semiotica degli artefatti orientata a superare il pregiudizio antifeticista e a rendere visibile la costruzione del senso anche dove esso si presenta come ordinario. L’esempio dell’iPhone, citato da Dario Mangano e ripreso da Peverini, mostra come il dispositivo non sia soltanto uno strumento multifunzione, ma un simbolo potente: l’uso del pronome personale (“i-”) segnala una strategia di valorizzazione che dissolve la dicotomia soggetto/oggetto e consolida una simbiosi tra individuo e tecnologia. L’artefatto diventa protesi, attore, compagno quotidiano, componente dell’identità.
Peverini evidenzia che l’intensificarsi di queste deleghe — cognitive, pragmatiche, affettive — rende la tecnologia sempre più magica, specialmente nei casi in cui il soggetto non riesce a coglierne il funzionamento. È in questo contesto che la semiotica può fornire un contributo decisivo: decostruire la retorica dell’intelligenza artificiale, smascherare la presunta naturalità dei dispositivi smart, e descrivere le modalità attraverso cui gli oggetti fanno senso. L’obiettivo è quello di riportare alla luce la rete di mediazioni, associazioni e pratiche che sostengono la nuova società degli ibridi.
Riferimento bibliografico: Paolo Peverini, Dalla semiotica a Latour, e ritorno. Traiettorie di un confronto aperto, in “E|C – Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici”, anno XVII, n. 37, Mimesis, 2023.