Il tema della performativity viene articolato da Massimo Leone intrecciando semiotica, scienze cognitive e studi teatrali. La performatività non coincide con la performance: quest’ultima è un atto situato, un evento spettacolare e circoscritto; la performatività, invece, è una capacità cognitiva e corporea che attraversa specie differenti, un potenziale inscritto nei processi di significazione.
Nella prospettiva richiamata da Leone (e dai lavori di Claudio Paolucci, Nicola Dusi, Gianfranco Marrone, e in particolare dagli studi di Paolucci, Pennisi e Falzone), la performatività non è un’aggiunta estetica al discorso, ma una condizione primaria del senso. Ogni enunciazione si dà attraverso una forma di presenza, un corpo che porta nel mondo un gesto, una voce, un ritmo, una materialità. La singolarità non è una proprietà astratta: emerge da questa dinamica incarnata.
Da qui l’interesse di Leone per le modalità con cui il vivente — umano, animale, vegetale — manifesta atti performativi che non passano necessariamente per il linguaggio. Il movimento, la postura, la variazione tonale, così come la trasformazione dell’ambiente, costituiscono segni che generano inferenze e modulano l’interpretazione. La performatività è quindi una competenza semiotica transpecifica, un terreno in cui le forme di vita dialogano attraverso le loro tracce, le loro presenze, le loro azioni.
Questa prospettiva apre la strada a una riflessione sull’usurpazione d’identità nell’era digitale. Quando l’IA genera voci, volti o gesti, non si limita a imitare caratteristiche percettive: produce effetti performativi. La voce sintetica che replica un timbro umano non solo somiglia, ma agisce: occupa una scena enunciativa, crea un campo di relazioni, suscita emozioni, orienta aspettative.
La performatività, letta in chiave semiotica, consente di comprendere come l’IA non si limiti a riprodurre input linguistici o visivi, ma costruisca configurazioni di presenza. Ogni deepfake, ogni avatar, ogni voce generata mette in opera un corpo — anche se inorganico — che si dispone nello spazio interpretativo dell’umano. L’identità non è qui soltanto simulata: è resa efficace, capace di produrre conseguenze nel comportamento, nella percezione, nella fiducia.
Questa dimensione si collega alla nozione di creatività incarnata. Nell’umano, la creatività emerge dall’interazione tra corpo, ambiente e memoria. Nell’IA, essa si manifesta come ricalcolo continuo della coerenza tra dati, forme e contesti, generando nuovi atti performativi che non riproducono semplicemente un modello, ma lo riattualizzano.
In questo senso, la creatività dell’IA è una forma di performatività algoritmica, non dipendente da intenzionalità interiori ma da pattern di apprendimento. Tuttavia, il suo effetto semiotico può risultare indistinguibile da quello prodotto da un corpo vivente: ciò apre scenari in cui l’IA, pur non avendo vita biologica, acquisisce una vita performativa, capace di incidere sulle dinamiche identitarie e relazionali dell’umano.
La performatività torna così a essere il luogo in cui si ridefiniscono i confini tra specie, corpi e agentività: lo spazio condiviso in cui il vivente e il non-vivente si incontrano, si imitano e talvolta si contendono la scena della significazione.
Riferimento bibliografico: Massimo Leone, L’IA comme « nouvelle espèce ».
