Jakobson ha sempre rifiutato ogni riduzionismo che confinasse la significazione al solo linguaggio verbale. È questo, secondo Umberto Eco, uno dei tratti distintivi più potenti e innovativi del suo pensiero. L’intero universo culturale, afferma Jakobson, è attraversato dai segni. E la semiotica, proprio per questo, non può che estendersi a tutti i sistemi comunicativi, verbali e non verbali.
Già nei suoi primi lavori, Jakobson affronta fenomeni espressivi diversi dalla lingua, e lo fa in modo sistematico. La sua attenzione si rivolge alla pittura (1919), al folklore (1929), alla musica (1932), al cinema e al teatro, alla gestualità, alla segnaletica stradale (1958), fino ad arrivare ai “tratti essenziali della gastronomia” (1965). La sua visione è inclusiva e articolata: ogni manifestazione culturale è, in quanto tale, significativa.
Uno degli strumenti concettuali più importanti impiegati da Jakobson per esplorare questa varietà di sistemi è la tripartizione peirciana tra simbolo, indice e icona. Jakobson è tra i primi linguisti a valorizzare la potenza analitica di questa classificazione. I suoi saggi degli anni Cinquanta e Sessanta la riprendono e la rilanciano: “indice”, “icona” e “simbolo” sono tre modalità differenti di rinvio tra significante e significato, fondate rispettivamente sulla contiguità effettiva, sulla similarità effettiva e sulla contiguità convenzionale.
Ma per Jakobson — sottolinea Eco — anche queste categorie non sono statiche: negli indici e nelle icone operano regole codificate e convenzionali. Non esiste dipinto che non contenga elementi ideografici o simbolici; anche i quadri e i diagrammi richiedono un processo di apprendimento per essere compresi. La proiezione tridimensionale nello spazio pittorico, per esempio, non è un dato naturale, ma una costruzione culturale. Allo stesso modo, i segni linguistici non sono puramente convenzionali: “per quanto non di primo piano, il ruolo che l’iconicità svolge a livelli differenti della struttura linguistica risulta fondamentale e necessario”.
Questa impostazione conduce a una visione articolata e dinamica della significazione. Jakobson non solo afferma che la significazione si manifesta ovunque, ma sostiene anche che essa opera attraverso una pluralità di codici. Il linguaggio è certamente centrale, ma non unico. Esistono “codici” specifici per ogni ambito comunicativo: codici musicali, pittorici, cinematografici, teatrali, e così via.
Eco evidenzia come Jakobson si sia spinto anche oltre i confini dell’umano, esplorando le analogie fra i linguaggi della cultura e quelli della biologia o della matematica. La comunicazione genetica, con i suoi meccanismi di codifica e decodifica, è per lui un terreno legittimo per l’indagine semiotica. Anche nei fenomeni naturali o cibernetici si danno strutture significative analizzabili con gli strumenti della semiotica.
Un contributo decisivo in questa direzione è rappresentato dal saggio sul film scritto da Jakobson nel 1933, definito da Eco “sbalorditivamente pionieristico”. In esso si mostra come il cinema operi attraverso un uso in funzione segnica di cose reali. Il film “semiotizza” la realtà: non la assume così com’è, ma la trasforma in materiale comunicativo attraverso le tecniche del montaggio. Il gesto, il silenzio, l’inquadratura, la luce diventano elementi significanti; anche il passaggio dal film muto al sonoro viene interpretato come un mutamento nelle leggi semiotiche del mezzo.
Jakobson applica anche al teatro questa stessa sensibilità: qui non sono le cose reali a essere semiotizzate, ma il comportamento umano. In entrambi i casi, afferma Eco, emerge la consapevolezza che la lingua è soltanto “uno dei sistemi semantici possibili”. Il cinema, in particolare, ha reso evidente che l’arte — in tutte le sue forme — è fatta di segni, e che il linguaggio verbale non esaurisce l’universo della significazione.
Fonte: Umberto Eco, Il pensiero semiotico di Jakobson, 1976