In Lector in fabula, Umberto Eco ripercorre alcune delle definizioni fondamentali offerte da Peirce per chiarire la struttura triadica del segno. Nel 1895, Peirce scrive: “Un segno sta per qualcosa nei confronti dell’idea che esso produce o modifica… Ciò per cui sta viene chiamato il suo oggetto, ciò che veicola, il suo significato, e l’idea a cui dà origine, il suo interpretante”. Questa formulazione ha ancora un’impostazione mentalistica: l’interpretante appare come un’idea prodotta nella mente dell’interprete.
Ma già nel 1897, Peirce precisa che il segno non produce un’idea, bensì un altro segno: “Un segno, o representamen, è qualcosa che sta per qualcuno in luogo di qualcosa in qualche rispetto o capacità. Esso si indirizza a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato. Il segno che esso crea lo chiamo interpretante del primo segno”. L’interpretante, quindi, non è più un contenuto mentale, ma un nuovo rappresentamen.
Questa seconda formulazione implica anche un mutamento nella concezione dell’oggetto. L’oggetto non è una cosa concreta né una entità fisica nel mondo, ma un’entità pensata “in riferimento a una sorta di idea”, cioè sotto un certo profilo. L’oggetto viene considerato come “astrazione”, “modello di una possibile (e angolatissima) esperienza”. La funzione del segno è dunque quella di selezionare un aspetto dell’oggetto, costruendone una rappresentazione parziale.
Eco sottolinea che nulla autorizza a interpretare l’“oggetto” peirciano come un referente concreto, secondo l’accezione tipica della semantica di Ogden e Richards. Peirce ammette espressioni referenziali come “questo cane”, ma solo in casi in cui si intenda un oggetto con valore di ecceità. Per il resto, anche termini come “andare”, “sopra”, “invece”, “tuttavia” sono da intendersi come representamen, riferiti non a cose ma a relazioni, strutture, esperienze astratte.
Eco chiarisce che per Peirce “andare” è un’espressione che non ha altra identità che non sia il consenso tra le sue molteplici manifestazioni: pertanto il suo oggetto è l’esistenza di una legge. L’oggetto del segno non è dunque un fatto, ma una norma, una regola che descrive una classe di esperienze possibili. Anche il caso del comando “Riposo!” viene interpretato in questo senso: l’oggetto del segno può essere sia l’azione che esso produce nei soldati, sia “l’universo delle cose desiderate dal Capitano in quel momento”.
In tutti questi casi, Eco osserva che “è chiaro che l’oggetto non è necessariamente una cosa o uno stato del mondo: è piuttosto una regola, una legge, una prescrizione (potremmo dire: una istruzione semantica)”. È questa la condizione perché un segno possa funzionare come nodo in una rete interpretativa illimitata. L’oggetto, lungi dall’essere qualcosa di dato, è la descrizione operativa di una classe di possibili esperienze.
Riferimento bibliografico: Umberto Eco, Lector in Fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1979.
