Nella seconda metà del Novecento, la riflessione semiotica sull’ideologia si articola lungo due linee principali: da un lato, l’approccio di Roland Barthes, legato alla teoria della connotazione e del mito; dall’altro, l’impostazione di Umberto Eco, più sistematica e ancorata a un progetto teorico generale.
Barthes, come ricorda Ugo Volli, collega strettamente mito, ideologia e connotazione. In Eléments de sémiologie, il semiologo francese definisce la connotazione come un secondo livello di significazione, in cui ciò che era segno nel primo sistema diventa significante di un nuovo segno:
«Ciò che è segno (cioè totale associativo di un concetto e un’immagine) nel primo sistema, nel secondo diventa semplice significante» (Barthes 1994).
Questo “plusvalore semiotico” trasforma il segno in veicolo ideologico. Per Barthes, infatti, la connotazione ha un carattere generale, globale, diffuso; è, osserva Volli, “un frammento di ideologia”. L’ideologia è dunque forma dei significati di connotazione, così come la retorica è la forma dei connotatori.
Barthes afferma che una delle possibilità della semiologia è proprio quella di scoprire l’ideologia là dove non ci si aspetterebbe di trovarla, cioè nelle forme. Volli sottolinea come questa intuizione sia una delle “grandi possibilità di lavoro” offerte alla semiotica:
«La portata ideologica dei contenuti è una cosa osservata da tempo, ma il contenuto ideologico delle forme è un po’ – se si vuole – una delle grandi possibilità di lavoro» (Barthes 1998).
Tuttavia, secondo Volli, questo modello incontra almeno due limiti: da un lato, tende a identificare ogni senso implicito nell’enciclopedia del parlante come ideologia, senza però riuscire a descrivere geneticamente le strutture che producono questi significati aggiuntivi; dall’altro, sostituisce il nesso marxiano tra ideologia e rapporti sociali con una nozione più indeterminata e sovrastrutturale. Ne risulta, osserva Volli, un’ideologia borghese che si espande oltre ogni limite, tanto da “perdere il proprio nome” e colonizzare l’intero discorso sociale.
Umberto Eco riprende queste riflessioni, ma ne propone una sistemazione teorica più solida. Già nella fase della “guerriglia semiologica” (Eco 1967), l’ideologia è pensata come componente connotativa ultima del sistema dei segni:
«L’ideologia non è il significato. […] È una forma di significato connotativo ultimo e globale» (Eco 1968).
Secondo Volli, questa prospettiva connette l’ideologia al tenore semantico dell’emittente, inteso come propensione a totalizzare il senso del messaggio, secondo un’idea che verrà sviluppata ne La struttura assente. Tuttavia, Volli osserva che l’idea di “significati ultimi e globali” rischia di coincidere con i meccanismi semantici dei regimi totalitari.
Più tardi, Eco abbandona questa visione totalizzante. Nel Trattato di semiotica generale, egli definisce l’ideologia come una “visione parziale del mondo”, una costruzione che tende a ignorare le connessioni reali tra i segni e a produrre “falsa coscienza”:
«L’ideologia è visione del mondo parziale e sconnessa: ignorando le multiple interconnessioni dell’universo semiotico, essa cela anche le ragioni pratiche per cui certi segni sono stati prodotti e per cui certi sono i loro interpretanti».
In questa nuova ottica, prosegue Volli, l’ideologia non è più solo una struttura di potere esercitata da un emittente, ma anche una scelta interpretativa del destinatario, che rifiuta di sottoporre a verifica le proprie convinzioni, assolutizzando la relatività del proprio punto di vista.
La semiotica, conclude Volli, si trova così a operare tra due poli: può produrre ideologia o diventare critica delle ideologie. Per questa ragione, essa è al tempo stesso teoria dei codici e teoria della produzione segnica, cioè una forma di prassi sociale.
Riferimento bibliografico: Ugo Volli, Avventure semantiche dell’ideologia: dalla teoria delle idee ai movimenti identitari, in Interrogare il senso. Verso una semiotica critica, Nomos Edizioni, 2024.