Francesco Galofaro analizza con attenzione le fonti epistemologiche del progetto hjelmsleviano, mettendo in luce il suo intreccio con la tradizione logico-formalista e con la filosofia post-kantiana. Secondo Galofaro, Hjelmslev elabora la propria teoria del linguaggio a partire da un’impalcatura che deve molto a Kant, ma anche a Hilbert, Russell, Carnap e Tarski.
Hjelmslev condivide con Kant l’idea che i dati dell’esperienza siano organizzabili solo attraverso forme a priori. Tuttavia, la sua posizione si distacca decisamente da ogni psicologismo: il pensiero non precede la lingua, e ciò che conta non è l’intuizione ma la costruzione teorica. Come osserva Galofaro, Hjelmslev sostituisce alla coppia forma/contenuto una dialettica tra forma dell’espressione e forma del contenuto, entrambi oggetti di descrizione linguistica. Questa scelta teorica implica una trasformazione epistemologica radicale: la linguistica non è fondata su un contenuto mentale, ma su forme articolate e relazionali, descritte come funzioni.
Galofaro ricostruisce la genealogia di questa impostazione mostrando come essa derivi in parte dal modello assiomatico della geometria euclidea: un sistema teorico si costruisce da un numero finito di assiomi, che non si giustificano empiricamente ma dalla coerenza interna e dalla capacità esplicativa. In questa linea, Hjelmslev adotta un nominalismo formale: la sua teoria linguistica non si fonda su enti o concetti dati, ma su definizioni che stabiliscono relazioni astratte tra elementi. Il linguaggio non è il riflesso di un pensiero, ma un sistema articolato di dipendenze.
Un ulteriore riferimento esplicito è Carnap, il cui progetto di unificazione delle scienze si fondava su una logica simbolica. Tuttavia, osserva Galofaro, Hjelmslev si differenzia da Carnap per un punto decisivo: nella glossematica, il metalinguaggio non è distinto dal linguaggio-oggetto né per il contenuto né per la forma. È solo una funzione, non un livello superiore. La semiosi non ha bisogno di fondazioni ontologiche, perché è descritta attraverso forme interne. In questo senso, Hjelmslev anticipa un problema che Carnap avrebbe affrontato solo più tardi: la distinzione tra metalinguaggi sintattici e semantici.
Galofaro sottolinea anche l’influenza, mai esplicitata da Hjelmslev, del formalismo hilbertiano: la fiducia nella possibilità di costruire una teoria matematica del linguaggio fondata su un numero finito di elementi, e capace di generare tutte le strutture possibili attraverso un calcolo combinatorio. Hjelmslev non condivide però l’atteggiamento esclusivista della logica simbolica: non vuole ridurre la lingua a un sistema logico, ma costruire una teoria capace di prevedere le possibilità espressive e contenutistiche dei sistemi semiotici.
Infine, Galofaro evidenzia che, pur mantenendo la distinzione tra teoria e oggetto (tra metalinguaggio e linguaggio-oggetto), Hjelmslev non cade nella tentazione di costruire una teoria della teoria: la sua glossematica è una metateoria del linguaggio, ma non pretende di essere a sua volta fondata. Proprio per questo, i suoi assiomi non sono giustificati in modo sistematico, ma risultano efficaci per l’analisi, come dimostra il successo della Categoria dei casi. Galofaro conclude che i Fondamenti di Hjelmslev vanno letti come una giustificazione epistemologica a posteriori del metodo già impiegato con successo.
Attraverso questa ricostruzione, Galofaro mostra come la teoria di Hjelmslev si collochi in una tradizione scientifica e filosofica che guarda alla forma, alla deduzione, alla funzionalità e alla possibilità di calcolo come strumenti per descrivere il linguaggio. Ma, al tempo stesso, evidenzia i limiti di questo impianto: la glossematica, pur volendo fondare la semiotica come scienza, non riesce a fondare se stessa. Questo paradosso — per cui una teoria non può giustificare i propri assiomi — porta Galofaro a rivendicare la necessità di una metasemiotica che non si illuda di potersi autosostenere.
Riferimento bibliografico: Francesco Galofaro, METASEMIOTICHE. Una ricognizione epistemologica