Eric Landowski apre la sua riflessione evidenziando come nella vita ci siano momenti di intensa esperienza nei quali il presente si manifesta «come un succedersi di miracoli, o di catastrofi» e in cui i dettagli della vita quotidiana assumono retrospettivamente un significato premonitore. Questi dettagli, apparentemente insignificanti, diventano segni capaci di annunciare ciò che sta avvenendo. «Particolari, dettagli che dunque avrebbero potuto darci modo di prevederlo», scrive Landowski, dando a questa concatenazione il nome di «narrazione».
Per Landowski, la narrazione nasce come discorso che riorganizza l’esperienza: è «quel discorso della narrazione rivolto a noi stessi che articola quanto ci accade sotto forma di puro evento». In questo senso, l’autore distingue due livelli del nostro rapporto con il reale: da una parte il «vissuto dell’esperienza», dall’altra la narrazione come discorso che rielabora tale vissuto.
Secondo il senso comune, il passaggio dall’esperienza alla narrazione rappresenterebbe un salto qualitativo auspicabile: sarebbe la «presa di coscienza» che permette di reagire in modo più razionale e di oggettivare l’esperienza, rendendola comunicabile. La narrazione, infatti, consentirebbe di dare forma a ciò che appare intimo e personale. Landowski osserva: «Anche se ciò che viene raccontato si presenta come immaginario, il solo fatto che lo si possa raccontare basta a farci credere nell’esistenza (in qualche mondo possibile) di un’esperienza originaria».
Tuttavia, Landowski mette in discussione due postulati impliciti in questa concezione: l’idea che l’esperienza goda di una priorità logica o temporale rispetto alla narrazione, e, all’opposto, che la narrazione goda di un primato sull’esperienza quanto a importanza.
Infatti, osserva l’autore, «questo rapporto può addirittura ribaltarsi, con la narrazione che precede l’esperienza e ne determina le condizioni». Inoltre, pur mantenendo la distinzione tra vissuto e discorso, «non è detto che tale vissuto debba necessariamente opporsi al discorso, quasi fosse un dato presemiotico estraneo a qualunque messa in forma significante del mondo».
Per Landowski, l’esperienza e la narrazione rappresentano due processi di produzione del senso che si sviluppano secondo regimi di significanza differenti, senza che questa distinzione escluda la possibilità di interferenze reciproche. Pertanto, «l’esperienza, al pari della narrazione e, a maggior ragione, dei rapporti che si creano tra le due, sono oggetti legittimi della riflessione e dell’analisi semiotica».
L’autore conclude questo primo passaggio con un avvertimento metodologico: riconoscere la pari dignità semiotica dell’esperienza e della narrazione significa prendere le distanze da una tradizione che ha privilegiato la narrazione come unico oggetto di analisi, relegando l’esperienza a un livello «sostanziale ed evanescente» ritenuto inaccessibile alla scienza semiotica.
Riferimento bibliografico: Eric Landowski, Unità del senso, pluralità di regimi.