Umberto Eco sottolinea come Roman Jakobson sia sempre stato attento a distinguere con precisione le diverse modalità del segno, opponendosi a ogni tentativo di ridurre la varietà semiotica a un modello unico. In particolare, la rivalutazione della tripartizione peirciana tra icona, indice e simbolo rappresenta uno dei contributi più rilevanti del suo pensiero.
Jakobson definisce l’indice come un rinvio dal significante al significato fondato su una contiguità effettiva; l’icona come un rinvio basato su una similarità effettiva; e il simbolo come un rinvio fondato su una contiguità convenzionale o abituale. Questa formulazione, osserva Eco, ribadisce i concetti di Peirce, ma ne mette in risalto due assunti tipicamente jakobsoniani: se c’è significazione, c’è sempre un codice; e la presenza di un codice non implica necessariamente arbitrarietà assoluta.
Jakobson insiste sul fatto che anche negli indici e nelle icone operano connessioni convenzionali, che richiedono un processo di apprendimento. Un dipinto, ad esempio, non può essere compreso senza una competenza simbolica; la rappresentazione prospettica delle tre dimensioni nello spazio pittorico è un effetto codificato culturalmente. Allo stesso modo, ridurre i segni verbali a simboli arbitrari significa semplificare in modo fuorviante. L’iconicità, pur marginale, ha un ruolo strutturale e necessario all’interno del linguaggio.
Eco evidenzia che, per Jakobson, questa prospettiva porta a un risultato importante: non è possibile ridurre i meccanismi di altri sistemi semiotici a quelli del linguaggio verbale. Negli anni più maturi, Jakobson ribadisce con forza che l’egocentrismo dei linguisti rischia di limitare la semiotica a semplice sinonimo di linguistica, mentre la varietà dei segni dimostra la necessità di una scienza autonoma e più vasta.
Un esempio significativo di questa impostazione è l’analisi del cinema condotta da Jakobson negli anni Trenta. Il film, osserva, non mostra la realtà così com’è, ma la trasforma in segni attraverso il montaggio e le tecniche espressive: ogni fenomeno del mondo esterno, sullo schermo, diventa segno. Anche il silenzio, in rapporto alla musica, assume una funzione semiotica. Il passaggio dal film muto al sonoro viene interpretato come una trasformazione delle leggi del discorso filmico, dalla logica del vaudeville a quella dell’opera.
Il teatro, invece, semiotizza non le cose reali, ma il comportamento umano. In entrambi i casi, afferma Eco, Jakobson mostra come ogni forma artistica riveli che la lingua non è che uno dei sistemi possibili di significazione. È proprio il cinema, nota Eco, ad aver rivelato con maggiore evidenza che “la lingua è solo uno dei sistemi semantici possibili”, svolgendo un ruolo analogo a quello dell’astronomia quando ha dimostrato che la Terra non era che un pianeta tra molti altri.
Fonte: Umberto Eco, Il pensiero semiotico di Jakobson, 1976