Paolo Fabbri segnala un’insospettata affinità tra la filosofia di Gilles Deleuze e le discipline della linguistica e della semiotica. Fabbri rileva che Deleuze non si limita a «una tradizionale filosofia del linguaggio», bensì abbraccia appieno ciò che definisce «una linguistica filosofica»: una filosofia che non osserva il linguaggio dall’esterno, ma lo utilizza come strumento interno al pensiero stesso. In questa prospettiva, i concetti non si raggruppano in un repertorio astratto, ma si dispiegano come elementi vivi di un discorso in permanente mutamento.
Al centro di questa proposta c’è il segno, concepito non come mero supporto della riflessione, ma come figura prossima all’atto del pensare. Fabbri richiama due affermazioni con cui Deleuze definisce la propria avventura teorica: «Per chi pensa, il segno è prossimo» e «Tutto ciò che ho scritto era vitalista, spero, e costituiva una teoria dei segni e degli eventi». La prima espressione sottolinea che il segno non è mai relegato a un livello inferiore o strumentale, bensì appartiene alla stessa esperienza cognitiva, come una zona di prossimità in cui incisività e significazione si confondono. La seconda riconduce l’intero corpus deleuziano a un paradigma vitalista che vede nei segni non semplici entità statiche, ma eventi dinamici, intensi e capaci di trasformare la realtà conoscitiva.
Nel riprendere queste parole, Fabbri mostra come Deleuze articolerà le sue letture di Nietzsche, Spinoza e Bergson per illuminare il rapporto tra vita e linguaggio. Da Nietzsche trae l’idea di un pensiero che si scrive e si riscrive attraverso tracce viventi, e da Spinoza – come riporta Deleuze – l’idea che la teoria delle passioni può essere riformulata come teoria dei segni-affetti. Bergson, infine, conferisce a questa semiotica filosofica una dimensione temporale, in cui il segno si avvita in un flusso intensivo senza punti di arresto. In tal modo, il segno prossimo diventa esemplare di un pensiero che non si chiude nella contemplazione, ma si converte in esperienza e azione.
L’eredità di questa “linguistica filosofica” si traduce, secondo Fabbri, in un invito a ripensare l’intera pratica filosofica come un avvenimento semiosico. Non si tratta di costruire nuove tassonomie di segni, ma di riconoscere che ogni operazione concettuale è un’operazione di traduzione, un evento che moltiplica possibilità di senso. Solo in questa luce il pensiero deleuziano acquista la sua potenza più autentica, capace di trasformare la percezione del mondo e di noi stessi in un continuo cantiere di segni ed eventi.
Riferimento bibliografico: Fabbri, Paolo. “Come Deleuze ci fa segno. Da Hjelmslev a Peirce”, in AA.VV., Il secolo Deleuziano, a cura di S. Vaccaro, Mimesi Ed., Milano, 1998.