Nel contesto del vivace dibattito sul cinema che animava negli anni Sessanta e Settanta la scena italiana, Gilles Deleuze prende posizione tra le tesi di Umberto Eco e quelle di Pier Paolo Pasolini sui segni cinematografici. Mentre Eco accusava Pasolini di confondere i significati con i loro referenti, Deleuze schiera sé stesso al fianco del regista-filologo, sostenendo che la semiotica non si riduce allo studio dei soli codici verbali o iconici, ma va intesa come «scienza descrittiva della realtà». In questa prospettiva, ogni fenomeno – dal movimento di una cinepresa al più effimero bagliore sullo schermo – diventa oggetto di analisi semiotica, perché i segni non segnalano semplicemente presenze esterne, ma manifestano i processi che li generano e li attraversano.
Il passo cruciale in cui Deleuze esplicita questa visione recita: «tale è la natura misconosciuta della semiotica, al di là dei linguaggi esistenti verbali e non». Con questa formula egli prende le distanze sia dalla semiologia generale – intesa come mera catalogazione dei codici –, sia da una filosofia del linguaggio confinata ai soli enunciati verbali. Al contrario, introduce il concetto di “trans-semiotica”: un’attività incessante di traduzione reciproca, in cui «i concetti non esistono di per sé ma solo in traduzione con altri concetti», e «i segni e gli autori non esistono di per sé, ma solo in traduzione con altri segni e con altri autori».
In questa nuova congiuntura il filosofo diventa un vero e proprio “intercessore” o “trans-duttore di segni”: ogni traduzione determina una morfogenesi del senso, un vero incremento di significato che ristruttura tanto la forma quanto la sostanza dei concetti. Tradurre non è dunque copiare o riproporre, ma attivare un processo creativo in cui il senso si espande e muta, sommergendo le distinzioni tra autore, testo e lettore.
La portata di questa visione travalica gli studi sul cinema: la trans-semiotica propone un modello per tutte le esperienze conoscitive, dalla letteratura alle arti visive, dalla scienza fino ai gesti quotidiani. Ogni fenomeno diviene un “evento segnico”, e il compito della filosofia si identifica con la descrizione dei flussi di traduzione che permeano la realtà. In questo senso, Deleuze ci spinge a riconoscere che il mondo non è un insieme di cose già date da nominare, bensì un campo in divenire di segni che continuano a tradursi e a trasformarsi.
Riferimento bibliografico: Fabbri, Paolo. “Come Deleuze ci fa segno. Da Hjelmslev a Peirce”, in AA.VV., Il secolo Deleuziano, a cura di S. Vaccaro, Mimesi Ed., Milano, 1998.