Nel percorso di Umberto Eco attraverso i problemi del riconoscimento e della conoscenza, una funzione centrale viene attribuita al giudizio riflettente. È questa, secondo Eco, la facoltà che permette di muoversi tra ciò che si percepisce e ciò che si pensa, quando manca una regola prestabilita. Kant lo definisce come il giudizio che cerca la regola, anziché applicarla.
Eco coglie qui un punto di contatto con la logica dell’abduzione formulata da Peirce. Il giudizio riflettente, come l’abduzione, non parte da una regola già nota, ma costruisce un’ipotesi. Non dice: questo è così, perché segue tale legge, ma: forse questa è la legge che rende conto di ciò che vedo.
Di fronte a un oggetto anomalo, inatteso, non riconducibile immediatamente a uno schema noto, il soggetto non applica un concetto, ma elabora una possibilità. Questo è il nucleo dell’abduzione: immaginare una spiegazione plausibile per un fatto osservato. Eco precisa che non si tratta di una deduzione né di un’induzione, ma di un’inferenza creativa, fondata sulla probabilità e sulla negoziazione interpretativa.
Il legame con Kant diventa evidente nel momento in cui si considera la funzione dello schematismo. Anche per Kant, ogni concetto richiede uno schema per essere applicato alla realtà sensibile. Ma quando manca uno schema preesistente, il giudizio riflettente si incarica di costruirne uno nuovo. L’ornitorinco, in questo senso, è un caso emblematico: nessun concetto noto basta a classificarlo, quindi si deve inventare uno schema adatto.
Eco mostra come questa dinamica non si limiti alla conoscenza scientifica, ma attraversi ogni forma di esperienza. Ogni volta che incontriamo qualcosa di nuovo — un oggetto, un evento, un comportamento — elaboriamo una spiegazione temporanea. È una costruzione ipotetica, che potrà essere confermata o corretta. Ma è sempre il frutto di un’interazione attiva con la realtà.
In questo processo ha un ruolo decisivo la comunità interpretante. Non è il singolo individuo a decidere in modo sovrano quale sia la regola migliore: l’abduzione diventa significativa solo quando viene discussa, accettata, condivisa. Peirce insiste sul carattere sociale della conoscenza: un’ipotesi è razionale non perché vera in senso assoluto, ma perché accettabile da una comunità razionale in determinate condizioni.
Eco raccoglie questa lezione e la estende alla teoria del significato. Il significato non è mai un dato stabile, ma una costruzione storica, che nasce da un accordo, da una consuetudine, da una pratica condivisa. Per questo, ogni giudizio riflettente è anche un atto culturale, e ogni schema è il risultato di una negoziazione.
Ma questa negoziazione non è arbitraria. Il giudizio riflettente è vincolato dall’esperienza: non può inventare qualsiasi cosa. Anche l’abduzione più audace deve confrontarsi con i dati percettivi, con le resistenze del reale, con i vincoli della comunicazione. Eco parla di una storicizzazione del trascendentale: gli strumenti con cui conosciamo il mondo non sono né universali né immutabili, ma si costruiscono nel tempo, attraverso l’esperienza e l’interpretazione.
Il pensiero non si fonda più su una struttura a priori, ma su una dinamica: è il movimento stesso dell’abduzione a generare i concetti. E ciò che inizialmente è solo una supposizione, può diventare regola, se trova conferma e condivisione.
Questo modo di intendere il giudizio non annulla la ricerca della verità, ma la situa in un orizzonte pratico e discorsivo. L’ornitorinco non è solo un caso zoologico, ma un paradigma conoscitivo: mostra come il sapere si costruisca nel passaggio dal disorientamento alla ipotesi, e da questa all’intesa.
“Riconoscere significa sempre rischiare un’interpretazione.”
Riferimento bibliografico: Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997.