Ogni indagine che metta in relazione semiotica e politica, osserva Gianfranco Marrone, dovrebbe essere accolta con ottimismo. Non solo perché consente di esplorare il carattere semiotico della politica, ma anche perché costringe a interrogarsi sul carattere politico della semiotica stessa. L’intento non è quello di indulgere in giochi di parole, né di rievocare formule dialettiche ormai desuete: si tratta di mettere a fuoco una doppia direzione critica.
Da un lato, occorre riconoscere la legittimità di uno sguardo semiotico sul fenomeno politico, riletto attraverso la categoria chiave della discorsività, capace di assorbire e superare le ambigue nozioni di linguisticità e comunicazione. In questa prospettiva, il discorso politico diventa un oggetto di senso, analizzabile secondo i modelli propri della scienza della significazione. Le pratiche e le attività linguistiche che appartengono alla sfera della politica non devono più essere intese come mere “rappresentazioni” del reale politico, ma come atti performativi, nei quali il linguaggio agisce, produce effetti, struttura il mondo.
Dall’altro lato, si tratta di affrontare una questione spesso elusa: quella del carico politico della ricerca semiotica. Non si tratta tanto di rivendicare un impegno diretto del singolo semiologo o di una comunità scientifica, quanto di riconoscere la dimensione politica, implicita e ineludibile, del lavoro teorico e analitico della semiotica. Marrone sottolinea come tale politicità emerga da molteplici fattori: dal portato critico intrinseco a ogni teoria, dalla sua funzione demitologizzante e decostruttiva, ma soprattutto dalla sua consistenza civile ed etica. L’esame semiotico mette in luce la rete di linguaggi, concetti, prassi, corpi, spazi, tecnologie che si articolano in dispositivi testuali; dispositivi che, una volta attivati, tendono a nascondere la propria origine, mascherando la costruzione con l’apparenza di una data naturalità.
A questo nascondimento dei processi costruttivi la semiotica oppone un ulteriore gesto — che Marrone definisce allo stesso tempo politico e metapolitico. La semiotica critica l’apparente purezza dei linguaggi e delle pratiche, mostrando come siano sempre il risultato di processi discorsivi e culturali. Ed è qui che entra in gioco l’esigenza epistemologica: solo una riflessione esplicita sulle condizioni di possibilità della scienza della significazione consente un intervento semiotico militante nella società.
In questa prospettiva, Marrone propone di non limitarsi a un’analisi di fenomeni politici concreti, ma di riflettere sulle modalità con cui una domanda sulla politica, o meglio sulla metapolitica, coinvolge i fondamenti teorici e operativi della disciplina semiotica. La scelta di affrontare il tema della natura diventa così una “tattica”, che permette di esplorare la relazione tra il livello epistemologico e quello empirico della semiotica.
Il “fatto naturale”, infatti, è tutt’altro che un’evidenza. Marrone propone un percorso che va dal “fatto-evidenza” (inteso come sostantivo) al “fatto-costruito” (participio passato), fino al “fatto fatto”, ossia un sostantivo che ingloba e maschera la costruzione retrostante. La semiotica non può accettare l’empiria come un dato preesistente, ma deve riconoscerla come un oggetto costruito a partire da specifici scopi analitici. Diversamente, si ricadrebbe in quella che l’autore definisce una semiotica dei fatticci, una scienza delle false evidenze, incapace di mettere in discussione le condizioni discorsive che danno forma al mondo.
In questa direzione, Marrone collega le proprie ricerche sull’invenzione del testo con una riflessione sulla costituzione della Natura nel discorso sociale, specialmente mediatico e scientifico. Questo intreccio tra epistemologia, discorsività e critica della naturalizzazione costituisce, per Marrone, un punto imprescindibile per ridefinire il ruolo della semiotica nella società contemporanea.
Riferimento bibliografico: Gianfranco Marrone, Politiche della natura / Natura della politica