La questione del rapporto tra percezione e concetto è una delle più complesse e decisive per la teoria della conoscenza. Umberto Eco la affronta riprendendo la celebre domanda kantiana: come sono possibili i giudizi sintetici a priori? Ma più ancora: come si passa da ciò che si percepisce a ciò che si conosce?
Il punto critico, secondo Eco, è lo schematismo. Per Kant, ogni concetto, anche empirico, ha bisogno di uno schema che ne permetta l’applicazione a un’intuizione sensibile. Lo schema è una regola operativa che consente di riconoscere, tra i molteplici dati della percezione, quelli rilevanti per formare un concetto.
Eco osserva che non basta avere un’immagine mentale per riconoscere un oggetto. L’immagine può variare all’infinito, ma ciò che resta costante è lo schema. Se vediamo un cane dalmata e un pastore tedesco, non abbiamo un’immagine comune dei due, ma possiamo comunque ricondurli al concetto di “cane” grazie allo schema che ne guida il riconoscimento.
Lo schema, quindi, non è un’immagine concreta, né un concetto generale: è una forma intermedia, una regola pratica di riconoscimento. Eco sottolinea che, in questo senso, il concetto non precede l’esperienza, ma si costruisce attraverso il confronto tra più esperienze che condividono uno stesso schema.
Questa operazione avviene in un contesto pratico e quotidiano. Quando diciamo “questo è un orologio”, non applichiamo un concetto astratto, ma riconosciamo una configurazione di proprietà (circolarità, lancette, numeri, funzione temporale) che rientra in uno schema acquisito. La conoscenza ordinaria funziona così: si basa su schemi che ci permettono di interpretare la realtà anche in assenza di definizioni rigorose.
Eco introduce qui la distinzione tra conoscere qualcosa (knowledge of) e sapere che qualcosa è tale (knowledge that). Il primo tipo di conoscenza è diretta, basata su familiarità; il secondo è proposizionale, basato su enunciati. Nella vita quotidiana, operiamo per lo più con il primo tipo, che si fonda sullo schematismo.
Ma se la percezione è già orientata da schemi, allora l’esperienza non è mai pura. Non esiste un dato sensibile privo di interpretazione. Ogni percezione è già una forma di giudizio, anche se non formulato in termini proposizionali. È un giudizio percettivo, che precede il giudizio d’esperienza.
Il giudizio percettivo dice: “questo sembra un orologio”. Il giudizio d’esperienza afferma: “questo è un orologio”. Tra i due vi è una soglia, quella che Eco chiama figurazione. Figurare significa rendere coerente una serie di dati percettivi in una configurazione riconoscibile. È un’operazione cognitiva che anticipa l’enunciazione e ne fonda la possibilità.
Lo schematismo, allora, non è solo una questione epistemologica, ma anche semiotica. È il momento in cui la percezione diventa articolabile, cioè capace di essere messa in forma, narrata, giudicata. Il linguaggio non interviene su dati grezzi, ma su dati già figurati, già selezionati da uno schema.
Eco suggerisce che, in questo senso, lo schema ha una natura simile a quella dell’icona peirceana: non è un’immagine, ma una relazione strutturale tra il segno e il suo oggetto. Lo schema è ciò che permette di dire che qualcosa sta per qualcosa, anche prima dell’uso linguistico. È la soglia tra il mondo e il linguaggio.
Questa soglia è sempre attraversata in modo storico, culturale, situato. Non esiste uno schema assoluto, valido per ogni tempo e per ogni luogo. Ma proprio per questo, la costruzione dello schema diventa il luogo privilegiato dell’interpretazione.
“L’esperienza, anche la più immediata, è già strutturata da uno sguardo che ha appreso a figurare.”
Riferimento bibliografico: Umberto Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani, 1997.