In semiotica, il termine effetto è ben più di una semplice conseguenza. Come osserva Isabella Pezzini, esso si colloca al centro di una riflessione sulla vitalità dei segni e dei testi, i quali non sono mai oggetti inerti, ma piuttosto dotati di specifiche “capacità” e “forze”. Il cosiddetto effetto di senso è infatti il risultato dell’interazione tra lettore-interprete e testo, ed è da questa esperienza che si può risalire alle articolazioni e alle organizzazioni semio-linguistiche che lo rendono possibile.
Un testo è detto efficace quando riesce a produrre effetti desiderati sui destinatari, ovvero quando si dimostra adeguato al proprio scopo. Tuttavia, anticipare o prevedere tale efficacia è estremamente complesso: più che una garanzia, essa è un orizzonte di possibilità, che può essere studiato e predisposto attraverso l’individuazione di condizioni favorevoli. In questo senso, la semiotica conserva un’attenzione particolare alla costruzione interna del testo, anche se negli sviluppi più recenti la disciplina ha accolto la sfida di un’integrazione tra approccio immanente e attenzione alle circostanze pragmatiche dell’enunciazione.
Nel contesto contemporaneo, la riflessione semiotica ha infatti abbracciato un orientamento sempre più pragmatico, che valorizza la produzione del senso nei processi di semiosi in atto. L’effetto si configura dunque come un nodo concettuale che consente di attraversare la frontiera tra significazione e azione.
Un punto di partenza utile viene offerto dal significato della parola “effetto” così come definito nel dizionario Sabatini-Colletti: “ciò che è originato, determinato da altro fatto o fenomeno costituente la causa”; oppure, più genericamente, “conseguenza, risultato di qualcosa”. L’effetto è dunque iscritto in una relazione causale. È proprio in questi termini che si può intendere l’antico modello del segno come inferenza: un segno è “l’evidente antecedente di un conseguente, quando conseguenze simili sono state previamente osservate” – come osservava Umberto Eco nel Trattato di semiotica generale.
Eco propone di non limitare lo studio semiotico ai soli segni prodotti intenzionalmente, e riconosce che anche eventi di origine naturale possano essere considerati segni, a condizione che esista una regola socialmente condivisa che associ l’espressione percepita (ad esempio il fumo) a un contenuto (il fuoco non percepibile). È la presenza di una convenzione codificata a rendere possibile questa lettura inferenziale.
In questa prospettiva, il paradigma strutturale, in cui il segno si configura come un’equivalenza inscindibile tra espressione e contenuto, cede il passo a un modello inferenziale, in cui l’espressione implica il significato solo all’interno di un contesto e di un’occorrenza specifica. In termini logici, si passa da E=~C a una forma condizionale: se p, allora q.
L’approccio peirceano, nella sua variante pragmatista, rafforza questa visione: “il significato di un concetto è l’insieme dei suoi effetti concepibili, cioè dei suoi abiti”. Mentre William James identificava il significato con le azioni effettivamente provocate da un segno, Peirce riteneva che esso risiedesse negli effetti concebibili, cioè in potenza, dotati di una possibile portata pratica.
Questa apertura verso la dimensione attiva e trasformativa del segno rappresenta un punto di svolta nella teoria semiotica. Semiosi e azione appaiono sempre più legate, e lo stesso linguaggio non viene più pensato come una mera rappresentazione del mondo, ma come una forma di intervento capace di modificarne gli stati. In questo senso, il linguaggio è un fare, e il testo diventa uno strumento d’azione, la cui efficacia si misura nella trasformazione che produce nei suoi destinatari.
Riferimento bibliografico: Isabella Pezzini, L’efficacia del testo. Effetti e affetti nella semiosi